sabato 25 ottobre 2008

Il concerto per violino e orchestra in mi minore, Opera 64, di Felix Mendelssohn Bartholdy


Il primo tempo è profondamente triste. La tristezza – così familiare – si esprime nel tema orecchiabile; spesso semplice e spontaneo, ma mai banale. Il violino esprime i moti dell’animo caduto in una profonda mestizia. Questo sentimento, intimamente sofferto, trova la sua piena espressione nel dialogo costante con l’orchestra. La suggestione è coinvolgente. A tratti si rasenta il lamento, a tratti affiora l’incontenibile bisogno di pianto. È lo sconforto. L’orchestra risponde sulle stesse emozioni, empaticamente. Non ci sono tentativi di consolazione. C’è piena partecipazione, condividendo la stessa situazione. Questa tristezza pare non trovare via d’uscita. Vengono esplorati tutti i meandri che essa stessa si scava, toccando culmini di disperata sofferenza.
Neppure nel secondo tempo si trova pace. C’è, anzi, una depressione. La tristezza diviene ancor più profonda e inconsolabile. Il lamento lascia il posto all’afflizione. Tutto diviene più cupo. La capacità di reagire è svuotata.
Nel terzo tempo c’è l’immancabile ripresa: l’animo ubbidisce all’imperativo impulso di sopravvivenza che sale da dentro. Come spesso accade quando si è toccato il fondo, basta poi un pretesto per rispondere all’accenno di un sorriso, pieno di comprensione, che ci viene rivolto. Ci si aggrappa allora al nuovo e salvifico stato d’animo. Quasi autoironicamente affiora un atteggiamento nuovo. Questa vena che sa di buono ci sorprende e ci seduce. Fa bene all’animo. L’orchestra coglie al volo l’attimo favorevole, e – come un amico che sa dare una pacca sulla spalla nel momento giusto – dà lo spunto al violino per uscire dal vicolo cieco della sua malinconia. L’autoironia diventa facile. Il violino cede allora al bisogno di recupero, abbandonandosi alla insperata e imprevedibile letizia, che – un po’ nervosa, per reazione, all’inizio – diventa quasi incontenibile e lo conquista. Lo stato emotivo si placa: la serenità è raggiunta. Non è la gioia di un momento. È la pace consapevole maturata dopo l’esperienza sofferta. Ora c’è equilibrio e stabilità. È l’appagamento dopo la ritrovata via d’uscita. È la libertà e la pace conquistata che non ha però dimenticato ciò che ha sofferto. La profonda tristezza è stata esplorata, vissuta, fatta propria; è divenuta nutrimento per la crescita di sé. L’io ne esce rafforzato. Il nuovo modo di essere è stato arricchito da quella sofferenza. L’io-violino la porta ancora in sé, ma ormai superata. Sa ora guardarla con distacco. Non la rinnega, ma è solo un ricordo nella sua nuova e positiva visione delle cose. Ecco che allora il tema musicale della tristezza iniziale si riaffaccia - per un momento - proprio in chiusura. Ma non sconvolge più: lo si rammenta con un sorriso, guardando avanti, attratti dalla grandiosità della vita.