domenica 3 febbraio 2008

VERA


Dedicato a Silvia, mia prima lettrice, che con la sua statuetta del presepe ha ispirato questo romanzo.

venerdì 1 febbraio 2008

VERA - Prologo


La vidi per la prima volta la notte scorsa. Nel villaggio c’era un gran movimento: tanta gente come non se ne era mai vista. Tutti parevano risentire di una atmosfera quasi magica e incantata, come nell’attesa di un evento. Ciascuno era preso dalla propria occupazione, eppure sembrava fossero tutti lì per qualcosa. Anche lei era lì per questo?
C’era un gran movimento nel villaggio illuminato. Luci tenui e delicate e limpide, nel freddo della notte invernale. Una luce particolare, discreta, illuminava lei. O era il suo sorriso appena accennato che le conferiva quella luminosità così pura?
Rumori e suoni di un villaggio operoso, percepiti più nitidi in quella notte inconsueta. Il picchiettare di un martello, note acute e metalliche sull’incudine; la sega del falegname, parodia di una viola; un ciabattino che ritma un suono come di nacchere; una tessitrice che ordisce fili d’arpa; il mormorare di un coro d’acque di ruscello; il belare solista tra il gregge di un pastore. E su – nel cielo blu notte – un firmamento di stelle, tacite spettatrici. E lei era lì, tra quei suoni che non s’udivano quasi più se solo la si guardava. Era una musica o il canto sereno del suo cuore quella melodia così dolce che accompagnava il suo passo?
Profumi. Aromi di muschio frammischiati a sentori di terra umida e notturna. Odori di paglia. Delicatezze di fiori percepite tra erbe bagnate di rugiada. E una fragranza calda e dolciastra, buona, che si diffondeva dai tre pani che ella recava su un piccolo asse tra le sue mani. Era quello il segreto della sua serenità?

Personaggi di un villaggio divenuto popoloso e operoso in una notte magica e stellata in cui sta nevicando. Personaggi di un sogno o di una favola. O di un evento così vero e reale che pare un sogno. E lei. Bella come una statuetta. Vera come una donna vera. Lei nella notte, apparsa lì a tarda notte. Non so il suo nome. Né so se sia la fornaia di quel villaggio, Betlemme, che significa casa del pane. Mi piace chiamarla Vera. Vera come una donna vera. Bella come una statuetta.
La vidi per la prima e unica volta la notte scorsa. A tarda notte. Indossava un abito blu, lungo. Un fazzoletto - anch’esso blu, con pallini bianchi – le copriva i capelli e le ornava il viso. Un sorriso lieve, appena accennato, da cui traspariva la sua serenità come una melodia che cantava nel suo cuore. E recava tre pani caldi e fragranti, su un piccolo asse che teneva tra le mani. Bella e semplice, nel suo abito blu. Vera.

Accadde la notte scorsa. A tarda notte. La vidi. E lei non mi vide. A cosa stava pensando? Quali erano i pensieri del suo cuore? Era bella come una statuetta, vera come una donna vera. E io che la vidi avrei voluto essere, per un momento almeno, un suo pensiero.

VERA - 1. Una mattina a Tel Aviv


Passeggiava, custodendo i suoi pensieri, sullo splendido lungomare di Tel Aviv. Era una mattinata limpida e radiosa, riscaldata da un sole – solitario e fiero come un principe a cavallo – sospeso nell’azzurro intenso del cielo.
Vera aveva sentito il bisogno di camminare. Si era svegliata con quel pensiero. E con quel pensiero si era preparata. L’idea di prendersi solo per sé quel giovedì in cui era di riposo le aveva dato lo stimolo giusto per quella giornata. Così quella mattina si sentiva un po’ più viva: poteva dare un senso alla sua giornata, anche se non sapeva bene quale fosse questo senso. Aveva però avvertito la necessità di uscire, di star fuori da sola, di camminare.
Si era svegliata presto, stimolata da quel pensiero. Aveva aperto le finestre, respirando l’aria fresca e nuova del mattino, che le recava il profumo dei fiori del giardino. Si era poi preparata con cura la colazione e l’aveva gustata con calma, seduta al tavolo della cucina. In bagno, mentre si preparava, continuava ad avvertire un senso di strana sicurezza. Non era come le altre mattine in cui doveva farsi forza per affrontare la giornata. Pur intuendo, per un attimo, che quel senso di sicurezza sarebbe stato momentaneo, non stette lì a pensarci e ritrovò subito quella sensazione di spensieratezza che la stava facendo sentir bene. E quando incontrò il suo stesso sguardo nello specchio lo sostenne, quasi sfidandosi. Ne fu anzi orgogliosa, rammentando come Iul la guardava. E si sorrise, evocando quel nome: Iul. Perché lui era semplicemente lui, e lei – leggendo da destra a sinistra, alla maniera ebraica – lo chiamava Iul. Ma non cedette alla sensazione che le stava salendo da dentro: rivivere l’emozione intensa di sentirsi guardata dai suoi occhi chiari. Da quegli occhi che le raggiungevano l’anima e le facevano provare un turbinio di emozioni a volte insostenibili, tanto da sentirsi senza scampo, abbandonata a lui.
Aveva alla fine distolto lo sguardo dallo specchio, riafferrando mentalmente il pensiero originale di quel mattino: uscire, camminare, respirare. Sotto la doccia calda, in un moto di riacquistata disinvoltura, decise di lavarsi anche i capelli.
Passata in camera da letto per scegliere cosa indossare, ebbe un lungo momento di pensosa incertezza quando, seduta sul letto – slip, collant e reggiseno già indossati -, se ne stette lì immobile davanti all’armadio aperto, facendo vagare lo sguardo un po’ sconsolato sui suoi capi d’abbigliamento appesi. Infine si scosse, scegliendo la gonna verde pallido con gli arabeschi giallo senape e verde scuro. Quella! La scelta le ridonò un po’ di brio. Si alzò, la indossò e si guardò di lato allo specchio dell’anta, verificando soddisfatta che poteva tendere un pochino con la mano il bordo della gonna in vita. Si chinò nell’armadio, cercando la sua maglia dolce vita, della stessa tonalità del verde di fondo della gonna. La annusò velocemente e se la infilò. Calda e confortevole, come immaginava. Aggiustandosi la maglia si ricordò che non si era profumata.
Tornata in bagno, spostò piano il collo della maglia per spruzzarsi il suo profumo sul petto e dietro gli orecchi. Risistemò per bene il collo alto della maglia, si diede una spruzzatina di profumo sui polsi e si spazzolò i capelli. Muovendo il capo a destra e a sinistra, lo sguardo fisso ai suoi occhi nello specchio, si riaggiustò i capelli rossicci e rimosse quelli caduti sulla maglia. Un’ultima occhiata. Pronta.
Dopo aver indossato le scarpe basse di cuoio marrone era andata al tavolo della cucina e vi aveva rovesciato sopra tutto il contenuto della borsetta di pelle blu, travasandolo poi con ordine nella borsa marrone. Lo aveva fatto con una meticolosità quasi esasperante, aprendo ogni astuccio per controllarne il contenuto e richiudendolo con cura. Pronta, finalmente. Sull’uscio, dopo aver girato bene la chiave nella toppa, ne aveva controllato l’effettiva chiusura.
Ora passeggiava tranquilla sulla promenade di Tel Aviv ed era giunta, un po’ accaldata per la lunga passeggiata, davanti al Migdàl Haòpera. Alzò istintivamente lo sguardo verso quella costruzione di ventuno piani, bianca con i bordi rosa; poi lesse la scritta sopra i tre archi dell’ingresso: Migdàl Haòpera – The Opera Tower. E decise di concedersi un caffè, proprio lì, al primo piano, fuori sulla terrazza assolata.
Seduta comodamente, gli occhi leggermente chiusi per il sole, lasciava vagare i pensieri, godendosi quel tepore. Fu scossa dalla voce del cameriere che veniva a riprendere la tazzina.
“Desidera altro, signora?”
“…Come? …No, grazie…”
Con lentezza precisa e accurata prese dal borsellino del denaro e pagò. Ne richiuse bene la cerniera e lo ripose al suo posto nella borsa. Si alzò.
Attraversata la strada, si ritrovò sul lungomare e andò a sedersi sul muretto della piccola rotonda sulla spiaggia. E una tacita eco, che solo lei udiva, le giungeva da lontano, recandole parole e immagini e profumi e suoni e sensazioni legate a lui. Lui, così inafferrabile. Lui, ormai perso per sempre (ma lo aveva avuto mai davvero?). In quello stesso posto, lì, il primo incontro, cinque anni prima.
Cinque anni prima. Due estranei seduti accanto sul muretto di una rotonda sulla spiaggia di Tel Aviv, davanti al mare. Dietro di loro, il Migdàl Haòpera. Lei che legge una rivista appoggiata sulle gambe. Lui, serio ed elegante, che guarda il mare con i suoi occhi chiari. Lo percepiva con la coda dell’occhio, ma avrebbe voluto guardarlo per incontrarne lo sguardo. Intanto leggeva - faceva finta di leggere – la sua rivista, sperando che lui rimanesse lì, che non se ne andasse.
Parlare io per prima no no e poiccheddico non saprei nonstabene sai cheimbarazzo non soneppure chissia ecco nonmigiro neppure se dicesse qualcosa però sarebbe facile macomefanno due sconosciuti ad iniziare discorso macomefanno eppoi chissà a cosa pensa guarda ilmare non pare preoccupato solopensoso è eleganteperò e mani curate pensoso e tranquillo pensa a lei forse no troppo tranquillo e se si accorge che ma no io sto qui indifferente leggo ecco leggo oh ma che bellabitino scollato dietro così lo voglio così e lui che fa nulla sta lì guarda il mare deve avere gli occhi chiari eppoi perché chiari non so mi pare e se mi giro per caso magari ecco mi giro e guardo no no se ne accorge vorreisapere comefanno le persone cosìpercaso a parlarsi eppoi ora comesifà magari prima sedendosi un sorriso oggi beltempo no quello è banale magari arrivalaprimavera no è come dire oggibeltempo allora saichefaccio mi giro e dico buongiorno oddio mi viendaridere certo che anche lui lìfermo serio e pensoso ora faccio cadere il giornale lui lo raccoglie e miguarda coisuoi occhichiari devono essere chiari mi guarda esorride ecco il suo fazzolettino damigella ohhh grazie mio bel cavaliere sbattendo unpò lepalpebre ohhh ohhh le punte dellemiadita acontatto dellasua cavalleresca mano ohh mia dolcedamigella ma è il destino sissì mio cavaliere il destinosì occhiazzurri del principeazzurro ma voi la man mi trattenete arrossir mi fate far la ritrosa io devo sississì macché macché lui lì fermo io qui afarfinta lui lìfermo col suo mare ora mi giro e glidico macchéguardi mai dimmelo acché pensi far cadere la rivista no è come dire machebeltempo eluilì fermo luipensoso ora mi alzo e vado magari misegue eppoi eppoi no questo rimane qui e se chiudo la rivista e sospiro unpò ennò sepoi non parla misentoscema macomeseipensoso mi piaci sai pensoso entrare nei meandri dei tuoi pensieri conoscerli econoscerti la tuamente mintriga cavaliere eh sisì mintriga ma tu dimmiqualcosa nontimangiomica lui pensa e pensa ma da bambino chissà comera unbambino pensoso e lamaestra glidice ma a che pensi sempre eppoi sa signora suofiglio è intelligente ma è distratto ecco dietrolalavagna e la campanella che suona e laclasse chescappa e lui laddietrolalavagna classe vuota lui là a pensare mio caro bel tenebroso ma lei lo sa dica lo sa che stiamo condividendo questo muretto al sole e midica sì midica leparbello star lì e nondirnulla e io qui e tu pensi e non so a che pensi non lo so
e vorrei saperlo
vorrei sississì vogliosì vorrei vorrei vorrei saperlo
vorrei
sapere
uno
un tuo pensiero uno

Cinque anni prima. Lì su quel muretto. E lei stava ormai per andarsene quando era passata una ragazza su pattini a rotelle, tutta trafelata, e si era fermata davanti a loro, domandando che ore fossero. Le avevano risposto insieme, all’unisono, poi si erano guardati ed erano scoppiati a ridere davanti alla ragazza stupita.

VERA - 2. Sul Mar di Galilea


Si erano rivisti il giorno dopo. E la domenica successiva erano andati insieme al Delfinario in Via Razìf Harbet Samuel, vicino al Gan Clore, il Giardino Clore.
E proprio al Delfinario, quel pomeriggio, Vera aveva cominciato ad avvertire in sé una sensazione diversa, piacevole, nuova. Si stava affezionando alla presenza di Iul: quelle sue continue attenzioni e il suo interesse verso di lei le facevano provare un senso d’orgoglio. Si sentiva stimata ed ammirata.
Ci fu un momento quasi magico quando – seduti vicini – Iul si era girato verso di lei per dirle qualcosa sullo spettacolo. La musica e il festoso frastuono dello spettacolo lo fecero avvicinare di più a lei, per farsi udire. Anche lei si era girata verso di lui, per prestargli attenzione, e i loro visi si erano trovati vicinissimi, quasi si sfioravano. Si guardarono per un attimo negli occhi. Nello sguardo vigile e penetrante di Vera traspariva tutto il piacere che provava nel sentirsi corteggiata, nell’attirare l’attenzione di lui. Lo fece apposta ad apparire timida e indifesa?
Fu un attimo. Un attimo soltanto. Si sarebbero baciati, ma uno schizzo d’acqua proveniente dalla vasca dei delfini li scosse. Si guardarono di nuovo, ridendo, ma con occhi diversi. L’incanto era svanito.
Erano usciti, districandosi tra genitori e bambini che commentavano ancora divertiti lo spettacolo dei delfini.
“Ti va di fare due passi sul mare?”
“Volentieri”, rispose lei guardandolo e sorridendogli.
Sul lungomare ritrovarono i rumori consueti e uno strano senso di calma dopo la rumorosità del Delfinario.
Vera camminava lentamente accanto a Iul, serena. Respirò profondamente l’aria del mare e, chiudendo gli occhi e alzando il capo, disse:
“Adoro questo profumo…”
Poi, con improvviso entusiasmo, aggiunse:
“Ti piace il pesce? …Sai, sul Lago di Tiberiade ne fanno di speciale!”
Iul si era fermato e la guardava divertito.
“Che c’è?”, si sorprese lei. “Non ti piace il pesce?”
“Se partiamo subito, possiamo essere sul lago per il tramonto.”
“Dici davvero?”
“Ma sì.”
Vera era raggiante. Si avviarono in fretta alla macchina.

Usciti da Tel Aviv presero la strada per Narareth.
“Vuoi che accenda l’aria condizionata?”
“No, si sta bene”, rispose lei adagiandosi comoda sul sedile. Gli aveva sorriso di nuovo. Iul era premuroso.
“Un po’ di musica?”
“Sì… che musica ascolti?”
Iul si sporse verso il cruscotto e ne trasse una cassetta che inserì nell’autoradio. Lei rimase in silenzio, attendendo le prime note. Dopo l’inizio melodico e cadenzato del pianoforte, la voce calda e profonda di Charles Aznavour si diffuse nell’abitacolo, in francese. Vera ascoltò attenta.
“E’ stupenda…”, disse piano. “Ho già sentito questa musica… Qual è il titolo?”
Elle… Lei. La chiamo così, ma il titolo francese deve essere diverso.”
“Lei…”, ripeté Vera. E ascoltò con attenzione sino alla fine. “E’ davvero stupenda… Il testo sembra una poesia, tanto è bello”.
Ascoltarono poi altra musica. Si era creata un’atmosfera tranquilla, piacevole. Vera si sentì ad un tratto in dovere di dire qualcosa di sé.
“Ti racconto un po’ di me, ti va?”
Si era fatta seria, ma nonostante l’imbarazzo desiderava parlargli di sé.
“Prima di impiegarmi come cameriera nella caffetteria di Tel Aviv dove lavoro attualmente, facevo la cameriera in un ristorante a Gerusalemme”.
Là, gli disse, aveva conosciuto un giovane appena laureatosi in biologia. Lei aveva allora venticinque anni, lui ventisette. Era un periodo in cui lei non era molto soddisfatta della propria vita. Non aveva particolare stima di se stessa (ma l’aveva poi avuta mai stima di se stessa?). Dani – così si chiamava il biologo – le apparve da subito un ragazzo sicuro di sé. Alto, un bel fisico, serio e pacato, impersonava per lei la persona che ispirava sicurezza. Veniva ogni tanto al ristorante con un piccolo gruppo di amici e lei aveva notato come le ragazze gli stessero dietro. Così, quando le aveva rivolto le prime attenzioni, si era sentita molto lusingata dal fatto che nonostante ci fossero belle ragazze nella sua compagnia, lui si interessasse proprio a lei.
Si erano frequentati, uscendo sempre più spesso insieme. Lui faceva sul serio e alla fine andarono a coabitare in un appartamentino nella Via Zevi Graetz, vicino alla stazione ferroviaria. Ne era innamorata? Forse non del tutto, ma lui si prendeva cura di lei, le era vicino, la faceva sentire al sicuro. Almeno all’inizio. Lei aveva continuato a lavorare al ristorante, lui aveva trovato lavoro come insegnante di matematica in una scuola di Moza, a circa dieci chilometri da Gerusalemme. Vera non avrebbe saputo dire con precisione cosa le mancasse, ma non era del tutto soddisfatta. Dani era sempre impegnato con la scuola, lei faceva orari diversi, si vedevano poco. E quando era libera dal lavoro non riusciva a stare in casa da sola.
Vera si era interrotta. Guardava fuori dal finestrino i campi della pianura di Meghiddo da cui stavano transitando. Guardava senza vedere, tenendo l’indice della mano destra piegato sotto il naso, come per frenare il senso di pianto, i pensieri altrove. Iul aveva già da tempo abbassato il volume della musica e, rivolgendole uno sguardo ogni tanto, ascoltava Vera in silenzio.
“Devono essere stati tempi molto tristi per te.”
Vera si era fatta più cupa. E Iul aggiunse:
“Non solo tristi… forse irrequieti.”
Vera lo guardò stupita. Non si era sentita soltanto compresa. Si sentiva messa a nudo nell’animo, sentiva che lui vedeva la sua nudità e non ne provò imbarazzo.
“Sì, irrequieti”, confermò lei guardandolo di sottecchi per saggiarne la reazione.
“Lo so”, disse Iul. “Tu hai una costante necessità di stimoli esterni.”
Vera aveva ritrovato il coraggio di parlare di sé. Gli raccontò allora di come, in quei momenti di libertà dal lavoro, prendesse la macchina e andasse in giro nervosamente, per occupare il tempo, di come a volte si fermasse sul ciglio della strada con una gran voglia di gridare.
Dopo circa sei anni da che coabitava con Dani, Vera aveva avuto dei sospetti sul compagno. Piccole cose, sensazioni, indizi che le facevano pensare alla presenza di un’altra donna. La conferma la ebbe quando, alcuni mesi dopo, incontrò Ran, un vecchio collega che aveva lavorato con lei nel ristorante a Gerusalemme. Ran era un tipo scherzoso, pieno di vita, spesso bizzarro. Aveva sempre corteggiato Vera, apertamente, cercando solo l’avventura. Non era cambiato. Così, tra una battuta ironica e un sorriso malizioso, le fece capire che Dani aveva un’amante. Lo sapeva perché ora lavorava in un bar proprio vicino alla scuola in cui Dani insegnava.
“Mi crollò il mondo addosso”, disse Vera.
Era stato sicuramente il periodo più buio della sua vita. Aveva affrontato Dani, ma lui aveva negato, impassibile. La vita consueta di convivenza, monotona e abitudinaria, era poi continuata tra loro per altri tre anni, finché avevano deciso per la separazione e lei si era trasferita a Tel Aviv.
“Ma quello è il Monte Tabor!”, esclamò Vera all’improvviso.
“Sì.”
“Incredibile… sembrano passati solo cinque minuti, e siamo già arrivati qui.”
Un quarto d’ora dopo entrarono in Tiberiade. Vera appoggiò una mano sul braccio di Iul, guardando gli incroci delle strade davanti a sé, per orientarsi.
“Ecco, prendi a destra e scendi sul lago. E’ là, vedi?”
Parcheggiarono. Iul aiutò Vera a scendere dall’auto. Lei aveva ritrovato la sua calma e il suo sorriso.
“Ti piace?”, gli domandò.
“Molto. E poi, hai visto? Giusto in tempo per il tramonto. Hai appetito?”
Si sedettero ad un tavolo della terrazza sul lago.
Vera era entusiasta. Fece lei le ordinazioni: pesce di San Pietro e vino bianco. Trattenendo il cameriere
si rivolse a Iul:
“Un po’ di chùmus in attesa del pesce?”
Era felice come una bimba. Iul le sorrise, annuendo.
Cenarono piacevolmente. Iul notò come lei pulisse il pesce con cura, metodicamente. Mangiava lentamente, assaporando ogni cosa, con garbo. Iul era affascinato da quella sua spontaneità e semplicità, dietro cui si avvertiva una personalità forte e concreta. La guardava e vedeva in lei una bellezza peculiare, tutta sua, non appariscente. Era… aggraziata, ecco. Aggraziata era la parola giusta.
Pur conversando allegramente, sorridendo e scherzando tra loro, era con gli sguardi che comunicavano. Negli occhi scuri di lei c’era una luce viva, scintille di vita che irradiavano bellezza fisica e mentale. Ma il fascino vero di lei, da cui Iul era conquistato, era custodito dietro la sua apparente insicurezza: un qualcosa di fermo nel suo carattere, qualcosa di franco e determinato, che completava il suo fascino tutto femminile. E lei doveva esserne consapevole.
Il vino aveva aggiunto allegria alla loro conversazione. Era ormai scesa la sera, ma continuava a far caldo. I rumori attorno giungevano più nitidi eppure più distanti. Le loro stesse voci avevano preso una tonalità quasi musicale. Gli aromi della cucina emergevano dall’odore di lago che pur permaneva.
Con i caffè, Iul aveva chiesto anche il conto. C’era molta confusione nel ristorante, altra gente che arrivava. Decisero di alzarsi. Iul teneva il conto in mano.
“Vado io direttamente a pagare.”
“Vado ad aspettarti alla macchina.”
“Sì. Tieni le chiavi…”

Mentre Iul si occupava del conto, Vera era salita in macchina. Aveva abbassato i finestrini e si era messa comoda sul sedile, i piedi allungati, il capo reclinato all’indietro, gli occhi chiusi. I suoni le giungevano lontani e ovattati, nel silenzio e nella calma di quel luogo. Era quasi buio, con pochi riflessi di luce. Ebbe un lungo sospiro di beatitudine, rilassandosi ad occhi chiusi. Raccoglieva i pensieri e le emozioni di quella giornata così bella e particolare. I delfini, il divertimento, il chiasso, quel momento magico in cui il tempo e tutto il resto attorno era sembrato arrestarsi per un attimo, lo schizzo freddo dell’acqua, la successiva passeggiata sulla spiaggia, la difficoltà a camminare con i tacchi sulla sabbia, l’abbaglio del sole quando aveva levato lo sguardo al cielo, l’odore del mare così diverso da quello di ora sul lago, l’improvvisa gioia della decisione di far continuare quella giornata andando a cena sul lago, il cartello stradale che indicava la strada per Nazareth, il Monte Tabor apparso all’improvviso, la pianura di Meghiddo che lei aveva guardato senza vederla veramente…
Si accigliò, ripensando a ciò che aveva detto di sé a Iul. Era la verità, certo. Ma la aveva raccontata in quel modo che le donne usano nel raccontare le loro verità: sottacendo cose e dicendone altre parzialmente. Dani aveva un’amante, e lei lo aveva scoperto. Ma lei pure aveva in quel periodo una relazione, e certamente da prima che Dani avesse la sua. Già. Una reazione. Con Iosèf. E cosa era Iosèf se non un amante? No, non un amante. Non avrebbe mai potuto chiamarlo così. Una relazione, sì. Per sopravvivere, per trovare un motivo per affrontare una nuova giornata. Iosèf la amava veramente. E lei? Lei aveva bisogno di sentire che era necessaria a qualcuno, che era al centro delle sue attenzioni. Ma quando aveva scoperto che Dani aveva una relazione, lei era già stanca della monotonia che Iosèf le dava. E mentre pensava a nuovi stimoli, ecco che le era crollato il mondo addosso. Era diventata gelosissima, non perché amasse Dani, ma perché la sua sicurezza veniva minata. Era stato invaso il suo campo, la sua proprietà, il suo possesso. E come ogni volta che si sentiva frustrata, si era avvilita moltissimo. Quella volta più delle altre. Aveva rischiato addirittura un mutamento di personalità. L’altra era diventata il suo chiodo fisso. Doveva sapere, sapere a tutti i costi. A tutti i costi… E il costo fu Ran.
Si accigliò ancora di più evocando Ran e la casa di lui. E le volte che ci andò, provando inquietudine ogni volta. Inquietudine, ma anche turbamento ed e mozioni fortissime.

Si scosse leggermente, socchiudendo gli occhi che erano divenuti tristi e spenti. Aveva udito i passi di Iul che la raggiungeva, strusciando le scarpe sulla ghiaia del parcheggio.

VERA - 3. Una notte stellata


Iul fece appena in tempo a cogliere un velo della tristezza negli occhi di Vera. Appena risalito in auto le aveva sorriso e lei – rinfrancata dalla serenità di lui - aveva assunto di nuovo il suo sguardo dolce e vivo.
Accomodatosi sul sedile, si era girato verso di lei e lei verso di lui. Le aveva preso una mano, tenendola e accarezzandola. Si era poi abbassato a baciargliela. E quando si risollevò e la guardò, Vera gli buttò le braccia al collo.
Si baciarono.
Lei era arrendevole, incollata a lui. Iul percepì subito la sua morbida sensualità. Dopo il primo bacio rimasero così, le bocche vicine, con le labbra che si cercavano e rifuggivano, in un gioco che li eccitava. Iul le afferrò il viso delicatamente, con lentezza voluta avvicinò le sue labbra a quelle di lei, prima sfiorandole, poi avvicinandole di più. La cercò, e lei si fece trovare. Si baciarono di nuovo, con più passione.
Quando Iul la baciò sul collo e poi sotto un orecchio, Vera ebbe dei brividi. Il pensiero che lui si accorgesse della sua eccitazione non la imbarazzò, le diede anzi una eccitazione nuova, mentale.
Vera dimenticava in quel momento ogni cosa, si lasciava andare a lui. Iul era dolce, molto dolce. Fu sorpresa di scoprire questo aspetto insospettabile del suo modo di essere che le era apparso fin troppo serioso sebbene gentile.
Iul scopriva la passionalità di lei, la sua arrendevolezza. Era ammaliato dal suo profumo delicatamente deciso. Tirò indietro il proprio sedile e ne reclinò un po’ lo schienale, per farle posto affinché si sedesse in braccio a lui.
“Vieni qui…”
Aveva parlato a bassa voce. Lei si era seduta sulle sue gambe, abbracciandolo, stringendosi a lui, non preoccupandosi che la gonna si fosse alzata nel movimento. Ripresero a baciarsi.
Vera fu percorsa da brividi intrattenibili quando sentì la mano di lui che la sfiorava, delicatissima, sulla schiena, sotto la maglia. Ebbe un sussulto di piacere intensissimo quando la sua mano percorse piano e con delicatezza il suo fianco destro, sulla schiena. Lo strinse di più, affondando il suo viso sul collo di lui.
Rumori di passi sulla ghiaia, che si avvicinavano. Avventori usciti dal ristorante, che scherzavano tra loro. Rimasero abbracciati, immobili.
Al ritorno ripercorsero il tratto della Galilea senza fretta, godendosi quella notte ancora calda, stellata. Vera gli disse altri particolari della vita con Dani. Gli confidò come fosse stata attratta dal senso di sicurezza che Dani sapeva dare, ma di come non fosse mai riuscita ad avere una vera intesa con lui, neppure fisica.
“Ho sempre trovato il suo odore sgradevole. Non era questione di doccia…”
Giunti a Hadera, immettendosi nella strada che scende a Tel Aviv, ritrovarono tutte le luci cittadine e questo fece cambiare argomento di conversazione. Parlò allora del suo lavoro alla caffetteria, delle colleghe con cui andava d’accordo ma di cui non era amica, di quanto quel lavoro a volte fosse stancante.
“Sai, da bambina volevo fare l’attrice.”
“L’attrice?”
“Sììì!”
Rideva, divertita. Iul si girava a guardarla, per cogliere quella luce così semplice e viva nel suo sguardo che celava al fondo una tristezza ben nascosta.
Dietro invito di Iul, parlò della sua infanzia e della sua famiglia. Erano originari dell’Italia. Poco prima della guerra suo padre era riuscito ad emigrare in Israele, dove Vera era nata. In casa avevano continuato a parlare italiano. Sebbene fossero una famiglia povera, lei aveva studiato fino alle scuole superiori, diplomandosi. Suo padre era stato un sarto da donna.
“Sai, non mi ha mai confezionato un abito… Solo qualche riparazione a quelli che mi comprava mia madre.”
Aveva voluto più bene a suo padre che a sua madre, ma il suo vero affetto era stato per il nonno paterno, un uomo tenero che la coccolava.
“Quando ero bambina mi caricava sulla canna della sua bicicletta nera e mi portava a spasso, raccontandomi dell’Italia. Allora abitavamo ad Herzliya, quando non era ancora un centro balneare. E mio nonno, con la sua bicicletta, mi portava spesso verso il mare. Erano momenti molto belli… C’erano profumi diversi, sai? Più naturali… la vegetazione, il mare… Ho sempre adorato il sole e il caldo.”
“Guarda.”
“Cosa?”
“Stiamo passando vicino ad Herzliya…”
Vera diede un’occhiata distratta fuori dal finestrino, scorgendo poche luci nel buio.
“Sei mai stata in Italia?”
“No, mai. Il mio sogno è visitare Milano.”
“Milano?”
“Sì, Milano. Ho visto delle fotografie e ho letto qualcosa. Mi sembra una città con un suo fascino, un fascino da Europa antica, sai.”
Iul sorrideva, nel buio della vettura. Appoggiò una mano su quella di lei. Vera prese il mignolo di lui tra le proprie dita e con queste lo accarezzava. Chiuse gli occhi e si adagiò sul sedile. Rimasero così, in silenzio. Vera si sentiva in pace.
Si udiva solo il rumore monotono dell’auto che viaggiava verso Tel Aviv, la radio spenta. Il buio della notte, luci notturne qua e là.
“A cosa stai pensando?”
“A come sono stata bene oggi. E’ stata davvero una bellissima giornata.”
“Anche per me, Vera.”
Si guardarono, sorridendosi. Il viso di Iul fu illuminato per un momento dai fari di un auto che veniva in senso opposto, proprio mentre Vera lo stava guardando: i suoi occhi azzurri apparvero per un attimo ancora più chiari, con le pupille che si ritraevano per effetto della luce. Vera lo notò e riprovò attrazione per lui.
“Mi faresti risentire Elle?”
“Volentieri. E’ la mia canzone preferita.”
Mentre avviava il nastro le domandò:
“Come si dice in italiano?”
“Cosa? Elle?”
“Sì”
Lei, si dice lei.”
Lei…”
Riascoltarono la canzone in silenzio, senza voltarsi mai a guardarsi.
Erano entrati in Tel Aviv.
“Vuoi vedere la caffetteria in cui lavoro?”
“Dove si trova?”
“A Ramat Gan.”
“Al di là del fiume, allora.”
“Sì. Passa sul ponte della rechov ha-Halakhà.”
Lo guidò poi lungo la rechòv Bialìk, oltre il ponte.
“Ecco, accosta qui. Ci siamo.”
Iul osservò l’insegna spenta del locale.
“Sabato e domenica siamo chiusi”, spiegò Vera. “Io abito qui vicino. Puoi lasciarmi qui.”
Iul era sceso per salutarla. Vera si alzò leggermente sulle punte dei piedi e gli diede un bacio sulla guancia.
“Grazie”, disse piano guardandolo negli occhi.
Scomparve dietro l’angolo, avviandosi a casa.




Ormai a letto, nella oscurità della sua stanza, Vera ritrovò la sua solitudine. Ma quella giornata era stata così bella che poteva permettersi di starsene lì sveglia, a letto, magari evocandone i ricordi ancora freschi. Non era come le altre sere in cui doveva star fuori fino a tardi per non stare sola con se stessa in casa, per stancarsi in modo da rientrare così stanca che poteva subito addormentarsi.
Ripensava a Iul, alla sua dolcezza, ai suoi occhi chiari. Era così diverso dagli altri che aveva conosciuto. Gli altri: differenti tra loro, eppur così uguali e prevedibili. Iul era diverso, aveva un’anima. Era poi così straordinario ciò che lei desiderava? Così impossibile? In fondo era una ragazza semplice. Una casa, una famiglia, un lavoro. Questo desiderava. E l’amore. Un amore suo, esclusivo. Se aveva avuto tanti uomini non era forse solo perché non aveva trovato l’amore vero? La sua vita sentimentale era stata intensa, è vero, ma non superficiale. Non era donna da avventure, lei. No. Piuttosto si sentiva donna da grande amore. E se gli amori erano stati più d’uno era solo perché non aveva trovato quello giusto. Se lo avesse trovato sarebbe stata appagata, non avrebbe cercato altro.
Dani le aveva dato sicurezza, ma poi non era stato presente. Non si curava di lei, non si interessava dei suoi pensieri, non era neppure geloso. E poi quella questione del suo odore. No, con lui non poteva esserci il grande amore che aveva sperato all’inizio.
Iosèf era più premuroso. La cercava, forse la amava davvero. Era sposato, sì, ma questo andava anche bene perché neppure lei era libera. Non era un grande amante, non era sempre attento a lei, ma le piaceva quella sua aria trasognata e quasi romantica. Sarebbe durata così, se non ci fosse stata poi lei, Maya, l’amante di Dani? Chissà, forse sì. Ma era arrivata lei, e la sua vita era stata sconvolta. Quante cose da allora, quanti errori! E ora, cosa aveva ora? Come era la sua vita ora? Aveva 42 anni, quasi 43, e andava avanti giorno per giorno, attaccandosi a qualche stimolo che cercava per affrontare una nuova giornata. Una volta tanto, ciò che sapeva essere un suo punto debole le veniva in aiuto: lei, che in fondo era poco impulsiva, cedeva invece ad una impulsività non mentale ma emozionale. Una specie di influenza interiore, ardente, che la prendeva. E questo le aveva dato, ultimamente, modo di tirare avanti. Quanto sarebbe durata? Non se lo domandava, non badava al futuro. Le bastava vivere un giorno per volta.
E ora c’era lui, Iul. Ma c’era davvero? Sarebbe rimasto? Anche quando avrebbe saputo della sua vita?
Era stanca. Desiderava addormentarsi e non pensare più. Cercò di riandare con la mente ai momenti belli della giornata appena trascorsa. Era lei quella? Era stata davvero lei quella donna così felice là sul lago di Tiberiade? Risentì sulla propria bocca i baci di lui, riprovò la sensazione dolcissima e tenera di quelle labbra sul suo collo e sulle sue spalle, rabbrividendo. Sì, era lei.
Si raggomitolò nel letto, nel suo stesso tepore sotto la coperta, al buio, abbandonandosi al suo sogno ad occhi aperti. Era da tanto che non lo faceva. Sognare ad occhi aperti le aveva sempre dato un gran sollievo mentale, anzi di più: un intimo piacere.
Vera scivolò pian piano nel sonno, arrendendosi alla stanchezza che lì nel suo letto si era fatta piacevole. Finalmente dormiva.
Era un accenno di sorriso quello che le era rimasto sulle labbra?

VERA - 4. Volare sognando


Sempre seduta sul muretto della rotonda sulla spiaggia di Tel Aviv, di fronte al The Opera Tower, Vera si era persa nei ricordi di cinque anni prima. Era così presa dal rivivere quegli avvenimenti che ebbe un sussulto quando fu richiamata alla realtà dagli strilli acuti di una bambina che non voleva saperne si seguire la madre fuori dalla spiaggia.
Vera seguì senza interesse la scena del recupero della bimba da parte della madre: la aveva afferrata saldamente per la mano e la trascinava via dicendo seria qualcosa, mentre la piccola tirava nel senso opposto piangendo.
Rimase lì, seduta sul muretto, fissando il mare. Quella sua mattinata primaverile, così bella e radiosa, non si stava rivelando spensierata come aveva desiderato. Respirò profondamente l’aria di mare, chiudendo gli occhi per godersela meglio, avvertendo il calore piacevole del sole sul viso.
Chissà Iul dove si trovava ora… Da quanto non lo vedeva! Cinque anni. Guardò istintivamente verso il mare, all’orizzonte. Girò il viso verso destra, guardando oltre l’orizzonte del mare: l’Italia doveva essere in quella direzione…
“Sei mai stata in Italia?”
“No, mai. Il mio sogno è visitare Milano.”
“Milano?”
Rammentò la scena buia di quella sera, mentre passavano vicino ad Herzliya, tornando dalla cena sul lago di Tiberiade. Riudì le proprie parole, distintamente.
“Il mio sogno è visitare Milano.”
Riprovò la stessa gioia così ingenua e pura nell’esprimere quel suo desiderio. Rivide lo stupore così semplice e sincero di Iul.
“Milano?”
Il mio sogno è visitare Milano. Milano? Milano. Il mio sogno è visitare Milano. Milano. Il miosogno è visitaremilano milano? ilmiosognovisitaremilano…
Ma se la sua era stata gioia pura (e lo era stata), quando aveva espresso quel desiderio, che sentimento era mai stato quello provato il venerdì successivo? Euforia indicibile? Felicità?
Iul le aveva telefonato la sera dopo quella prima domenica trascorsa insieme. Parlando di come avevano trascorso la giornata, Iul le aveva detto che era stato a ritirare il passaporto che aveva rinnovato. E poi aveva buttato lì, per caso:
“E tu lo hai il passaporto?”
“Sì, certo. Lo tengo sempre nella borsetta… Ti sembrerò sciocca, ma lo tengo sempre con me da quando diventai maggiorenne.”
Quando gli era venuta l’idea? Quel lunedì? O già la sera prima, quando passavano in macchina vicino ad Herzliya? Il mio sogno è visitare Milano. Milano?
Al telefono, quel lunedì sera, Vera era emozionata. Aveva sperato in quella telefonata. E ora lui era lì al telefono con lei. Udiva la sua voce, la sua voce bella e gentile.
“E tu che hai fatto, oggi?”
“Lavorato alla caffetteria.”
“Sei stanca?”
Quella domanda le trasmise un senso di tenerezza per l’interesse che Iul le mostrava.
“Non tanto. Risento ancora della bellissima giornata di ieri…”
“Possiamo ripeterla, se ti va.”
“Mi piacerebbe molto.”
“Quando hai la tua giornata di riposo?”
“Questa settimana?”
“Sì.”
“Questa settimana, venerdì prossimo. Pensa! Venerdì, sabato e domenica… tre giorni di vacanza!”
E mentre terminava la frase si era pentita di averlo detto. Non voleva dargli l’impressione di essere disponibile. Aveva sentito che arrossiva, mentre lo diceva. Iul però non ci aveva fatto caso.
“Venerdì? Ma è stupendo, Vera! Se ti va, potremmo vederci venerdì.”
“Volentieri. Dove vorresti andare?”
“Sorpresa. Lo saprai venerdì.”
Questa volta fu Iul a pentirsi di aver parlato. Aggiunse in fretta:
“Vedremo di fare qualcosa di speciale. Tu ritieniti impegnata per tutta la giornata.”
“Agli ordini, capo!”
Risero, divertìti.

Il giorno successivo, martedì, Vera attese invano una telefonata di Iul. Il giorno triste per lei fu però mercoledì: Iul non chiamava ancora. Non che si fossero messi d’accordo in tal senso, ma lei se lo aspettava. La sera di mercoledì era di umore cupo. Si stava ormai preparando per andare a letto quando il telefono squillò. Non aspettava più una telefonata di lui, per cui rispose svogliatamente.
“Pronto.”
“…Cos’hai?”
Vera si riprese subito, assumendo un tono allegro e disinvolto. Lo salutò lasciando trasparire la gioia di sentirlo. Lui rispose al saluto e le domandò di nuovo:
“Cos’hai?”
“Nulla! Una giornata un po’ faticosa, forse. Tu come stai?”
Era sorpresa da come avesse intuito il suo stato d’animo semplicemente da come aveva detto “pronto”.
“Per venerdì è confermato, Vera?”
“Sì, per me va bene. Dove andiamo?”
“Una sorpresa, Vera, come ti avevo detto.”
“Oh, una sorpresa… mi piace. Dove ci vediamo?”
“Passo a prenderti davanti alla caffetteria di Ramat Gan?”
“Per me va benissimo. E’ vicino a casa mia.”
“Allora alle sei?”
“Quando?”, domandò stupita.
“Alle sei del mattino. Fa parte della sorpresa. E’ troppo presto per te?”
“No, ci sono abituata. Ma mi incuriosisci.”

Il giorno dopo, giovedì, fu per Vera una giornata strana, lunga, a tratti nervosa e a tratti esaltante. Non faceva altro che pensare al giorno dopo. Verso sera, quando ormai mancava circa un’ora alla fine del suo turno di lavoro, ripassò mentalmente l’organizzazione dei preparativi. Aveva già deciso di lavarsi i capelli in casa e farsi la piega da sola: non voleva apparire una bambolina appena uscita dal parrucchiere. Rimase un momento perplessa sulle calze. Iniziava a far caldo, ma le sembrò molto più elegante metterle. E poi, alle sei del mattino! Sì, le calze ci volevano. Magari leggere, venti denari. Doveva passare a prenderle, non ne aveva. Ci volevano nere, velate, da mettere sotto la gonna nera a pieghe che aveva deciso di mettersi con la camicetta azzurro carta da zucchero e la maglia di cotone grigio screziato aperta davanti, quella con quei magnifici bottoni grandi. Sì, deciso. E le scarpe ci volevano comode: una intera giornata, e poi dalle sei del mattino! Quelle col tacco basso, sì. E se non appariva così alta, pazienza.
Arrivò all’appuntamento pochi minuti prima delle sei di venerdì mattina. Iul era già lì, in attesa. Scese dall’auto, sorridendole e salutandola di buon umore. La fece accomodare e salì a sua volta. Vera era a suo agio, il nervosismo lasciato dietro l’angolo quando si era immessa nella rechòv Bialìk. Percepì il profumo di Iul. Avrebbe voluto domandargli la marca. Le piacque quel profumo non del tutto amaro, e quella sensazione di pulito. Senza farsene accorgere guardò i dettagli del suo abbigliamento: era elegante e in ordine.
“Una sorpresa, dunque! Ora si può sapere?”
“Non ancora.”
Recitava apposta la parte del misterioso, compiaciuto. Vera era incuriosita davvero. E quando Iul prese l’autostrada verso sud, disse convinta:
“Capito. Si va a Gerusalemme!”
“Chissà!”, fece Iul mantenendosi misterioso.
Lei si arrese, stando al gioco e affidandosi a lui. Quella sensazione di affidarsi le piaceva. Era la prima volta, in effetti, che la provava con Iul. Affidarsi. Non fidarsi, proprio affidarsi. Le piaceva.
“Mettiti comoda, il viaggio sarà lungo.”
“Lungo?”
Vera era sempre più confusa sulla destinazione. Lungo. Gerusalemme allora non poteva essere: una sessantina di chilometri non erano un viaggio lungo. D’altra parte, in quella direzione, sull’autostrada… Eilàt sul Mar Rosso? No, trecentocinquanta chilometri sarebbe stato un viaggio molto lungo, non lungo. E dove, allora? En Ghedi sul Mar Morto?
Iul aveva saputo barare bene. E ci riuscì perfettamente anche quando, commentando il paesaggio e leggendo i cartelli indicatori qua e là, avvicinandosi a Lod, lesse, distrattamente:
“Aeroporto…”
E, sempre distrattamente, le domandò:
“Ti piace volare?”
“Vuoi sapere una cosa? Mai volato.”
“Dici davvero?”
“Sì.”
Iul fece finta di avere una idea lì per lì e uscì dall’autostrada verso l’aeroporto.
“Andiamo a vederli da vicino, almeno! Tempo ne abbiamo.”
E aggiunse scherzoso:
“Un caffè all’aeroporto le va, signora?”
“Perché no?”

Erano seduti ad un tavolino di un elegante bar dell’aeroporto Bel Guriòn. Vera si guardava attorno, osservando tutto.
“Devo confessarti che non solo non ho mai preso un aereo, ma che è la prima volta che metto piede in un aeroporto. So che non è questa la sorpresa, ma grazie. …Sai cosa mi stupisce qui? La calma. Sembrano tutti tranquilli, senza fretta. E’ diverso dalla frettolosità delle stazioni ferroviarie.”
Andando verso l’uscita, Iul la fece fermare davanti al tabellone delle partenze.
“Pensa, Vera… da qui si giungerebbe in poche ore nella tua Italia. Vediamo se c’è una partenza…”
Gli occhi fissi sul tabellone, leggeva a bassa voce i nomi di alcune città europee, muovendo piano le labbra, concentrato. Ci fu un aggiornamento e le finestrelle del tabellone scorsero in fretta, cancellando nomi e creandone di nuovi.
Vera, guardando divertita e pronunciando le sillabe velocemente, fece:
“Fla-fla-fla-fla-fla-fla-fla-flà.”
“Cosa?”
“Il rumore del tabellone… fa così.”
“Rifallo.”
“Fla-fla-flà.”
“Ancòra.”
“Fla-fla-flà.”
E questa volta Vera arrossì un po’. Iul la guardò negli occhi, pieno di simpatia. Lei lo sentì così vicino che provò il bisogno di essere abbracciata.
“Guarda, Vera…”
“Dove?”
“Là sul tabellone…”, indicava con un dito. Lesse:
“LY 381 - 7.40 - Milano.”
“Cosa vuol dire LY?”
“E’ la sigla della compagnia aerea, El Al, e 381 è il numero del volo. C’è un aereo alle 7.40 per Milano.”
In quel momento una voce femminile, bella e melodica, si diffuse dagli altoparlanti:
“Chiamata per il volo El Al 381 per Milano. Uscita numero cinque.”
“E’ il nostro volo. Chiamano noi, Vera.”
Vera lo guardava incredula, con occhi semplici e incantati come quelli di una bimba di fronte a qualcosa che la sorprende. Iul si era fatto serio e calmo. E’ il nostro volo, chiamano noi, Vera. Le sue parole riecheggiavano nella mente di Vera, mentre lo guardava stupefatta. Ma gli occhi chiari di lui non avevano neppure un’ombra: erano seri e sinceri, trasparenti. Il nostro volo, chiamano noi.La prese con gentilezza sottobraccio.
“Andiamo.”
La stessa voce ripeté dagli altoparlanti:
“Chiamata per il volo 381 della El Al per Milano. Uscita numero cinque.”
Vera udì quell’annuncio, questa volta, come se fosse diretto proprio a lei. Ne fu emozionata. Il nostro volo, noi.
E mentre la voce lo ripeteva in inglese, seguendo Iul che la teneva sottobraccio, Vera si accorse che stava tremando. Noi. Nostro.

VERA - 5. Sognare volando


Vera non sapeva se guardare fuori dal finestrino o guardare Iul. Volgeva lo sguardo fuori e si girava emozionata verso Iul. Tutto la stupiva: le nuvole appena più in basso di loro; la costa israeliana sul Mar Mediterraneo, proprio lì sotto di lei; le strade con quelle che sembravano automobiline piccole come giocattoli.
“Non ho parole… mai e poi mai avrei immaginato…”
“Ma il bello deve ancora venire.”
“Più di questo?”
“Sì, Vera. Stiamo andando in Italia, a Milano.”
“Milano!”.
Non stava nella pelle per l’eccitazione. Iul era compiaciuto nel vederla così contenta.
“A che ora arriveremo?”
“Alle undici e quarantacinque, Vera. Ma là saranno le dieci e quarantacinque.”
Era sopraggiunta una hostess, spingendo un carrello. Iul si prese cura di Vera, abbassandole il tavolino di fronte e facendole servire quello che desiderava. Ci fu uno scambio di battute tra Iul e la hostess. Vera, non essendo abituata ai modi particolarmente cortesi e garbati delle assistenti di volo, ne fu gelosa. Dopo aver lanciato uno sguardo alla hostess, con cui la inquadrò, osservava di sottecchi le reazioni di Iul ai modi di lei. Questa, commentando le premure di Iul verso Vera, le disse:
“Come è gentile…”
E Vera, pronta:
“Vero?”

Consumarono la colazione con appetito: salmone affumicato, pane e burro, caffè e una insalatina verde con un condimento così delicato e gustoso che Vera ne avrebbe voluto la ricetta.
L’aereo volava ora sul mare. Sotto di loro mare e solo mare, mare azzurro cupo, su cui Vera notava le increspature bianche della schiuma delle onde, piccolissime e immobili per la distanza, senza che si notassero le onde stesse. Ora Vera era rilassata, in pace. Il rumore monotono dei reattori in sottofondo, l’immobilità dell’aereo, l’azzurro cupo del mare sottostante e sconfinato a perdita d’occhio, e l’azzurro intenso e uniforme del cielo, tutto ciò, unito al leggero senso di sprofondamento che avvertiva nello stomaco quando incontravano un vuoto d’aria, le dava un senso di sospensione del tempo. Iul lo comprese e le disse:
“Volare può essere anche noioso. Abbiamo ancora quasi tre ore di volo. Ti conviene reclinare la poltrona e riposare un po’. Magari riesci ad addormentarti…”
Vera fece segno di sì col capo, grata.
“Riposi un po’ anche tu?”



Fu un sogno carico di ansia.
Dapprima saliva in continuazione delle scale. Era esausta, stanca, ma doveva continuare a salire e salire. Atmosfera scura. Semioscurità in una specie di castello immenso, diroccato e disabitato. Scale di pietra che portavano in alto. E Vera doveva salirle. Gradini immensi, innaturali, alti. Come faceva a salirli? Il corpo poteva muoversi come in assenza di gravità, eppure ne sentiva la pesantezza. Mura interne di pietra che parevano sbriciolarsi. Nessun arredamento. Guardando in alto poteva vedere attraverso le ampie aperture del tetto rotto - da cui sbucavano travi di legno vecchissime e impolverate - il cielo della notte. Un cielo basso, marrone, con nuvole anch’esse marrone. E quando le sembrava di essere arrivata in cima, altre rampe e altre ancora, con gli stessi gradini alti, sempre più alti. Era stanchissima, esasperata. Salire, ancora salire, sempre salire. Avvertiva un sentore di aria chiusa, vecchia, con un sottofondo di muffa. Salire ancora.
Come si era poi trovata nel sotterraneo? E sotterraneo di cosa? Di una stazione, forse. Un sottopassaggio lungo e buio, alquanto stretto. Buio. Lei camminava. Doveva prendere un treno? Forse solo risalire dall’altra parte. Camminava. Dietro di lei dei passi. Di un uomo, ci avrebbe giurato. Un uomo più grande di lei, lo sentiva. E lei, quanti anni aveva lei? Era piccola. Ma come faceva ad essere piccola eppure ad avere il suo corpo attuale di donna? Non lo sapeva, era così e basta. E quei passi che sembravano avvicinarsi. Lei non voleva dare nell’occhio, voleva sembrare naturale e non affrettava il passo. Tendeva però un orecchio per capire se i passi dietro di lei si avvicinassero. Sì. Eccome. Si avvicinavano. Allora camminò più in fretta. Anche i passi dietro di lei si fecero più frettolosi. Passi, passi, passi. Più veloci. Più vicini. Ho paura. Camminare più in fretta, sfuggire. Il sottopassaggio è lungo. Dio mio, ma non c’è gente qui, nessuno. Ma dove è l’uscita? Dove, dove, dove? Passi di dietro, passi che si affrettano, passi che inseguono, passi che si avvicinano. Passi che rintronano sonori nel sottopassaggio. E’ buio, è sera, è notte. Ho paura, ho paura. Voglia di piangere. Voglia di gridare, di urlare. La voce non esce. Sono in trappola. Sono perduta. Dio, abbi pietà.
Vera si svegliò improvvisamente. Rimase immobile, gli occhi chiusi. La sua prima preoccupazione fu di capire se attorno a lei si fossero accorti del suo sogno. Si era agitata? Aveva parlato nel sonno, magari urlato? Provò vergogna per questa eventualità. Non si mosse. Era sveglia, ma rimase lì ferma con gli occhi chiusi, come se continuasse a dormire, lì nel suo angolino vicino all’oblò, la testa reclinata sullo schienale della poltrona, verso il finestrino. Udiva solo la musica melodica diffusa a bordo e, in sottofondo, il rumore monotono dei motori dell’aereo. Nessuno parlava. Il suo sogno era rimasto segreto. Solo suo. Nessuno sapeva, dunque. Socchiuse piano un occhio e scorse l’azzurro del cielo. Ne fu rassicurata. Rimase così ancora alcuni minuti, passivamente. Quando sentì di essersi ripresa, si mosse piano, avvicinando il viso all’oblò e guardando fuori, in basso. Non c’era più il mare, ma una vegetazione fittissima con dei laghetti. Dove si trovavano? Sulla Turchia? O sulla Grecia? O forse era la Jugoslavia? Cercò di richiamare alla mente la figura di una cartina geografica, ma non riusciva a collocare le nazioni al posto giusto. Riprese a guardare il paesaggio sottostante che cambiava. Ebbe un moto di stupore vedendo che il terreno ricoperto di vegetazione non era più in basso, ma di lato, quasi verticale. L’aereo stava virando. Vera sentì di essersi completamente ripresa da quel brutto sogno. Si preparò a sorridere e, facendosi forza, si girò verso Iul.
Iul dormiva, disteso sulla poltrona. Vera sorrise, non come si era preparata a farlo, ma di simpatia. Assunse la stessa posizione di Iul, allungando i piedi e distendendosi sulla sua poltrona. Chiuse gli occhi e, con un senso di beatitudine, sospirò. Ripensò per un momento al suo sogno, a quelle scale da salire che sognava spesso. Il senso di soffocamento, di stanchezza e di logorio mentale di quel sogno era tanto estenuante quanto era liberatoria, svegliandosi, la consapevolezza che era stato solo un sogno. Ma aveva sognato dell’altro. Cosa? Già non ricordava. Le parve stranissimo non poter rammentare un sogno di pochi minuti prima. Era stato qualcosa che le aveva fatto paura, questo lo ricordava. Ma cosa? Si sforzò di ricordare, ma ricordava solo i gradini alti da salire. Proprio non le veniva in mente, nonostante gli sforzi. Alla fine rinunciò.
Vera sospirò di nuovo, cercando di godersi il resto di quel viaggio. Viaggio? Ma stava volando, lei! Il nostro volo. Tel Aviv le sembrava lontanissima. Tra poco sarebbe stata in Italia, l’Italia dei suoi genitori. L’Italia di cui le parlava suo nonno quando la portava a spasso sulla canna della sua bicicletta nera. Suo nonno a cui era affezionatissima, suo nonno che la coccolava e la chiamava Nini, suo nonno tanto burbero con gli altri quanto dolce con lei.
“La mia Nini…”
Anche Iul era dolce. Era attento e premuroso. E quella sorpresa, poi! Era stato, come dire? Grandioso, ecco. E lei non aveva sospettato di nulla. Non immaginava nulla di simile alle sei di quella mattina. Altro che una gita a Gerusalemme o sul Mar Morto. L’Italia, Milano! Sì, era stato grandioso.
Vera aveva sempre tempi un po’ lunghi per l’assimilazione delle cose. Abituata a ponderare bene tutto, non brillava per intuizione e reazione. Solo ora si rendeva conto di quanto significasse quella sorpresa. Sapeva apprezzare anche il valore materiale del gesto, lei così attenta e oculata nell’uso del denaro. Non che fosse avara, no, ma era consapevole del benessere e della sicurezza che il denaro poteva dare e odiava gli sprechi. Sì, davvero una sorpresa grande e grandiosa. E poi aveva ragione Iul: il bello doveva ancora venire. Una giornata intera a Milano, in Italia. A raccontarlo non ci avrebbe creduto nessuno, alla caffetteria. Ma poi perché raccontarlo? Quella era una cosa sua, solo sua. Il nostro volo.

“Vi parla il comandante. Stiamo per iniziare la discesa verso Milano, dove atterreremo tra circa venti minuti. Il tempo a terra è sereno, la temperatura è di 21gradi.”
Iul si scosse. Si girò subito verso Vera:
“Credo di aver dormito.”
“Ho dormito anche io. E’ tutto bellissimo, non so come ringraziarti…”
Per tutta risposta Iul le sorrise, annuendo. Vide poi la hostess uscire dalla cabina di pilotaggio.
“Scusami solo un momento.”
Si alzò e andò a parlottare con la hostess che lo ascoltava e annuiva. Vera li guardava un po’ accigliata. Fu di nuovo gelosa. Quando lui tornò a sedersi accanto a lei, Vera lo guardò discretamente come per interrogarlo. Iul fece finta di non accorgersene.
Poco dopo la hostess raggiunse Iul e si chinò su di lui. Con cortesia disse:
“Il comandante dà il permesso.”
Iul spiegò a Vera:
“Ho chiesto il permesso perché tu assista all’atterraggio dalla cabina di comando.”
“Con te le sorprese non finiscono mai!”
“Venga, signora, l’accompagno. Lei, signore, per cortesia si allacci la cintura di sicurezza.”
Iul guardò le due donne dirigersi verso la cabina. La hostess aprì la porta e spostò una tenda dietro cui si vedeva la cabina con tutte le strumentazioni di bordo. I due piloti, eleganti nelle loro divise blu scuro, si voltarono per salutare Vera. La hostess e il navigatore la aiutarono ad allacciarsi l’imbracatura del sedile su cui era stata fatta accomodare, al centro tra i due piloti. La hostess richiuse la tenda e la porta, e andò a sedersi a sua volta.
Iul immaginava l’emozione di Vera. Si allacciò la cintura di sicurezza. Era contento e soddisfatto.
Il rumore dei reattori cambiò, divenendo più sonoro.

VERA - 6. Spumeggiante gioia


Usciti dall’aeroporto di Milano Malpensa, Vera si guardò in giro, felice e stupefatta di essere lì.
“Sembra Tel Aviv, solo non ci sono le palme. Anche l’odore è diverso. E non fa caldo.”
“Ora tocca a te, Vera.”
“A me?”
“Non so una parola di italiano, a parte ciao. Sei tu quella che deve parlare.”
“E’ vero!”
Vera era tra l’emozionato e l’entusiasta. Domandò a Iul:
“Ma dove andiamo?”
“Cosa conosci di Milano?”
“In teoria tutto… A casa ho delle guide e delle mappe, e anche dei libri su Milano. In questi anni li ho letti, cercando sulle cartine i luoghi. Non sai quante volte sono andata in giro per la città con la fantasia, percorrendo i posti di cui mio nonno mi parlava.”
“Iniziamo dal centro?”
“Sìì! …Piazza del Duomo, allora.”
“Cosa?”
Kikàr scel haknesìah.”
“Bene. Andiamo, Vera. Prendiamo un taxi.”

“Rientrate da molto lontano?”, domandò la tassista a Vera.
“Sì, da lontano, ma non rientriamo. E’ la prima volta che veniamo in Italia.”
La tassista, per un attimo, si girò stupita a guardare Vera.
“La prima volta? Ma lei parla perfettamente italiano.”
“I miei genitori erano italiani. In casa abbiamo sempre parlato italiano.”
“E dove abita ora?”
“Israele.”
Ossignùr… E’ lontano davvero.”
“Sì. Mi sembra un sogno essere qui.”
“Vi fermate molto?”
“Saliamo stasera.”
“Salite?”
Vera ridacchiò, confusa. Poi spiegò:
“Mi scusi. E’ un modo di dire ebraico. Noi non diciamo, per esempio, andare in Italia e tornare in Israele. Diremmo scendere in Italia e salire in Israele. Per noi Israele è idealmente sopra le altre nazioni, come se fosse in alto, per questo diciamo scendere e salire.”
La tassista si girò ancora, ma questa volta guardò Vera con sussiego. Questa si sentì in dovere di spiegare.
“Non si tratta di altezzosità o presunzione. Fa parte del nostro retaggio biblico. Allo stesso modo, noi non chiamiamo Israele la nostra nazione.”
“E come la chiamate?”
“La terra. Per cui, per dire andiamo in Israele diremmo saliamo alla terra.”
“Capisco.”
Iul seguiva divertito la loro conversazione, pur non capendo neppure di cosa stessero parlando. La tassista aveva ripreso ad occuparsi del traffico, in silenzio. Vera cercò la mano di Iul e, tenendola stretta, gli disse:
“Che cosa strana e bella! Parlo in italiano e capisco tutto benissimo. Lo parlavo solo in casa con i miei. E ora lo parlo qui, per davvero! Pensa, la tassista mi ha scambiata per italiana.”
Iul si godeva la gioia di lei. Era eccitata come una ragazzina che esce per la prima volta di sera con le amiche. Si guardava attorno con occhi meravigliati, osservando i palazzi vecchi della città, i tram, i filobus. Intanto continuava a stringere la mano di Iul, nervosamente, tanto era eccitata.
Scesero in Piazza Duomo.
Tenendo ancora Iul per mano, Vera guardava il Duomo incantata, lo sguardo rivolto in alto verso la Madonnina. Anche Iul era sorpreso da quella magnificenza. Se non fosse stato per il fatto che vestivano bene e con gusto, sarebbero sembrati – lì in piedi incantati, tenendosi per mano – due provinciali che venivano in città per la prima volta.
Vera si volse verso Iul. I suoi occhi scuri erano umidi, colmi di stupore e di gratitudine.
Entrarono nel Duomo e visitarono la chiesa, parlando a bassa voce nella semioscurità. Si udiva il suono dell’organo a canne. Odore di incenso. Lei ebbe quasi freddo e fu contenta di aver optato per le calze a venti denari, anche se ora avrebbe apprezzato quelle a trenta.
Usciti, ritrovarono la luce e il calore del sole. Decisero di salire fin sopra il tetto del Duomo. Camminando tra le guglie e osservando il panorama, Iul si rammaricò di non aver con sé una macchina fotografica. Vera disse con impeto:
“Una piccola sorpresa forse posso farla io, questa volta.”
Estrasse dalla borsetta una piccola macchina fotografica.
“L’avevo portata per fare delle foto con te, oggi. Spero non ti dispiaccia.”
“Tutt’altro. Sei previdente, Vera.”
Lei provò orgoglio nel vedere riconosciuta la sua bravura nell’organizzarsi. Anche se non sempre era soddisfatta della propria vita, sapeva di essere brava nel gestirla.
Fermarono un turista giapponese, chiedendogli a gesti di scattar loro una foto. Poi risero, felici.
“Vera, hai appetito? E’ quasi l’una. Per noi sarebbero le due!”
“Ho appetito, sono felice, sono strafelice, sto vivendo un sogno. Ti basta? Devo continuare?”
“Dimmi come fa il tabellone dell’aeroporto.”
“Flaflaflà.”
Risero di nuovo, divertendosi. Lei lo abbracciò e lui la tenne stretta. Si baciarono. Non riuscivano a staccarsi l’uno dall’altra. Iul la baciava delicatamente sul collo, scendendo con le labbra fin dentro il colletto della sua camicetta, sulla spalla, avvertendo l’odore di lei che, unito al suo profumo che ormai conosceva, lo esaltava; continuava a baciarla con calma, indugiando sulla sua pelle, sentendo la morbidezza dei seni di lei che premevano contro il suo petto, percependo nel suo respiro la piacevolezza del tormento che lui le dava, avvertendo i fremiti improvvisi da cui era impercettibilmente scossa nelle punte di esasperazione. Fu egli stesso intimamente turbato quando lei, tenendo le proprie mani sul petto di lui, vicinissima, lo guardò negli occhi con uno sguardo sicuro e penetrante e ardente e fermo e provocante e audace che non le conosceva e che non avrebbe sospettato, e gli disse calma, piano, sottovoce:
“Bada… se fai così…”
Una scolaresca vociante, disordinata e chiassosa, irruppe nella zona del tetto dove si trovavano, non badando a loro che avevano fatto appena in tempo a ricomporsi.

Percorso un tratto di Corso Vittorio Emanuele svoltarono in Via Beccaria, verso Piazza Fontana, alla ricerca di un ristorante. Vera camminava sottobraccio a Iul, stringendolo. Si fermò di colpo, esclamando:
“Non ci posso credere!”
“Cosa?”
“Questa insegna… guarda: Crota Piemunteisa.”
“Che vuol dire?”
“E’ in un dialetto italiano. Mi ero quasi dimenticata che mio nonno me ne accennava ogni volta che in casa si parlava di vino… In italiano sarebbe Cantina Piemontese.”
“E significa?”
Martéf scel Piemonte.”
“Piemonte?”
“E’ una regione italiana, a nord-ovest. Ma è incredibile! Sembra uscita da una favola di mio nonno… Guarda l’interno come è vecchio…”
“E che ti diceva tuo nonno?”
“Beh, parlando con mio padre elogiava i vini del Piemonte, e lui diceva: ‘Preferisco il buon vino del Carmelo’, e mio nonno: ‘Tu di vini non ne capisci niente’”.
Imitava la voce burbera del nonno che si rivolgeva a suo padre. Poi, cambiando tono, ne imitava quella dolce che si rivolgeva a lei:
“’C’è un posto a Milano dove si trovano i vini piemontesi. E che panini buoni fanno, Nini; ti piacerebbero tanto’. Dove nonno? ‘Ma alla Crota Piemunteisa!’, e mi strizzava l’occhio.”
Iul riguardava l’insegna, cercando di immaginare Vera da bambina che pendeva dalle labbra del nonno.
“Oggi mi stai facendo felice… Senti!, ti va se pranziamo qui?”
“Qui?”
“Ma sì! O non ti fidi dei panini di mio nonno?”
“Io mi fido di tuo nonno e dei suoi panini. E mi fido di te.”
La condusse dentro, precedendola. Seguendolo, Vera si era adombrata. E mi fido di te: quella frase, detta sinceramente da Iul, la inquietò per un attimo. Approfittando di essere dietro di lui, non vista, ricacciò indietro la sua preoccupazione, riassumendo la sua aria spensierata.
Si sedettero ad un tavolo di legno massiccio, dietro una colonna. Scelsero dei panini con sgombri e caprini stagionati.
“Prendiamo una birra, Vera?”
“Ahi, ahi… E dovremmo fare questo torto a mio nonno?”. Scherzava. Il cameriere pareva indifferente alla loro lingua.
“Vada per il vino, allora.”
“Sì, vada per il vino! Aspetta che lo ordino… Senta, come si chiama quel vino…? Frisa… fresa…”
“Frèisa, signora.”
“Sì, ecco. Ci dia una bottiglia di Frèisa.”
“Bene. Vi servo subito.”
“Lo hai ordinato?”
“Sì, una bottiglia.”
Bott…?”
“Si chiama così in italiano: bottiglia. Ma il nostro termine, bakbùk, mi piace di più, perché imita il suono del vino che scende dal collo della bottiglia…
bak-buk-bak-buk-bak-buk… è suggestivo.”
“Si dice onomatopeico.”
“Suggestivo lo stesso.”
“E come fa il vino?”
“Fa bak-buk-bak-buk.”
“E il cartellone?”
“Quello fa flaflaflà.”
Iul la guardava con occhi innamorati. Lei era quasi estasiata. Il vino rosso, facendo bak-buk, spumeggiava nei loro bicchieri.

VERA - 7. Un male segreto


Ancora seduta sul suo muretto della rotonda sulla spiaggia di Tel Aviv, Vera teneva il capo chino, l’indice piegato della mano destra, stretta a pugno, premuto contro una narice.
Ripassò davanti a lei la mamma con la bambina che aveva trascinato via. La bimba ora era tranquilla, si faceva tenere per mano dalla madre e nella mano libera teneva un grosso gelato.
“Mamma, perché piange quella signora?”
La donna strinse di più la mano della bimba e la tirò avanti, facendole affrettare il passo, in silenzio. Solo quando fu abbastanza lontana si voltò solo un attimo per dare un’occhiata a Vera, non permettendo che la figlia si girasse.

Vera non riusciva a dimenticare. Era nella sua natura impiegare molto tempo per dimenticare, ma questa volta non ci riusciva neppure dopo tutti quegli anni. Come le aveva detto lo psicologo? Possedere qualcosa, o meglio qualcuno, è l’unico modo per farti sentire sicura, affermata e invulnerabile; anche se tendi a considerarti infallibile, sei afflitta da un recondito senso di inferiorità. Era quella la risposta alla sua inquietudine? Non del tutto. Sapeva da sé che il suo bisogno d’affetto l’aveva sempre spinta a cercare in continuazione l’anima gemella, ma il fatto era che Iul era davvero l’anima gemella. Nessuno era come lui. Era anche vero, come le aveva detto lo psicologo, che ciò che la aveva interessata davvero una volta la avrebbe sempre interessata. E Iul la aveva interessata per la vita intera. Forse il problema era proprio in lei e nel suo passato. Doveva tornare dallo psicologo? Lo aveva odiato con tutte le sue forze quello psicologo, specialmente dopo la seconda seduta, quando era rimasta sconvolta per ciò che le aveva fatto ricordare. Più che ricordare: rivivere.


“Mettiti comoda e chiudi gli occhi.”
Vera si aggiusta bene sulla poltroncina e chiude gli occhi. Silenzio nella stanza. Una finestra socchiusa da cui entra il canto melodioso di qualche uccellino. Nessun altro suono, oltre alla voce di lui. Odori neutri. Ma che ci faccio qui, a che serve? “Sei pronta?”
Lei fa cenno di sì col capo, avverte la sua presenza proprio di fronte a lei. Voce calma, rassicurante.
“Durante la seduta sarai sempre vigile e cosciente. Se vorrai interrompere, me lo dirai e termineremo. Qualsiasi cosa diremo non avrà poi nessuna suggestione su di te. E’ tutto chiaro?”
“Sì.”
“Bene. Iniziamo. Vai con la mente a questa mattina, quando ti sei alzata.”
“Sì.”
“Ci sei? Sei lì?”
“Sì.”
“Cosa vedi aprendo gli occhi appena sveglia?”
“L’armadio di fronte. E la finestra sulla sinistra.”
“Dimmi che suoni senti.”
“Nessuno…”
“Ascolta bene… cosa odi?”
“Il rumore di una macchina che passa.”
“Bene. Ora vai al momento in cui ti alzi. Guàrdati i piedi e dimmi cosa indossi.”
“Le mie ciabatte.”
“Di che colore sono?”
“Beige. Sono di spugna beige.”
“Cosa fai ora?”
“Vado in bagno.”
“Dimmi la sensazione che hai calpestando il pavimento lì in bagno.”
“Sento che è duro. Lo sento sotto le suole.”
“Molto bene. Ora vai indietro nel tempo e fermati ad un momento in cui eri felice. Dimmi quando ci sei.”
“Ci sono.”
“Dove sei?”
“Sono sulla bicicletta con mio nonno.”
“Dove andate?”
“A spasso. Lui mi porta verso il mare.”
“Molto bene. Sei felice lì con lui?”
“Moltissimo.”
“Che tempo c’è?”
“E’ bello, sereno. E’ molto bello.”
“Che temperatura?”
“Calda, molto calda.”
“Descrivi cosa vedi.”
“La vegetazione… i cespugli, le palme.”
“Poi?”
“Il sentiero sterrato su cui mio nonno sta pedalando…. e un uccello che vola via.”
“Quanti anni hai?”
“Cinque.”
“Benissimo. Ora vai con la mente ad un momento in cui avevi paura. Dimmi quando sei lì.”
“…”
Vera non risponde. Lui tace, attende calmo in silenzio. Solo il canto dell’uccellino. Cosa devo rispondere?
“…Vai ad un momento in cui avevi paura. Dimmi quando sei lì.”
“Non ricordo.”
“Ripeti 'non ricordo'.”
“Non ricordo.”
“Ripetilo ancora.”
“Non ricordo.”
“Ancora. Ripetilo in continuazione, senza fermarti.”
“Non ricordo, non ricordo, non ricordo.”
“Non fermati. Continua a ripetere.”
“Non ricordo, non ricordo, non ricordo non ricordo non ricordo non ricordo nonricordo nonricordo nonricordononricordononricordo nonricordononricordononricordononricordononricordo nonricordo nonricordo…”
“Dove ti trovi ora?”
“A Herzliya.”
“Quanti anni hai?”
“Sette.”
“Cosa stai facendo?”
“Sto camminando per strada. Torno a casa.”
“Dove sei stata?”
“A comprare una bottiglia di candeggina. Mi ci ha mandato mia madre.”
“E ora hai con te la bottiglia e stai tornando a casa?”
“Sì.”
“Che temperatura c’è?”
“Fa freddo.”
“Che mese è?”
“Febbraio, è febbraio.”
“Dimmi le condizioni di luce.”
“E’ già buio.”
“Che rumori senti?”
“…I miei passi.”
“Cosa accade ora?”
“Stavo camminando verso casa.”
“Torna lì.”
“Sì.”
“Cosa accade?”
“Camminavo verso casa.”
“Torna lì. Torna lì e stai lì. Dimmi quando sei lì.”
“Ci sono.”
“Bene. Dimmi cosa stai facendo.”
“Sto camminando verso casa.”
“Molto bene. Che rumori odi?”
“I miei passi…”
“Che altro odi?”
“Altri passi, dietro di me.”
“Sono vicini?”
“No, li sento un po’ lontani.”
“Ora che succede?”
“Ho paura.”
“Descrivi a tua paura.”
Schiocco di dita. Le sue, lui sta facendo schioccare le dita. Sto tremando.
“Ho paura. Sento che i passi dietro di me si avvicinano.”
Altro schiocco di dita.
“Cosa fai ora?”
“Affretto il passo verso casa.”
“Poi?”
“Sento che anche i passi dietro di me si affrettano.”
“Dimmi le tue emozioni.”
“Ho paura!”
“Cosa sta accadendo ora?”
“I passi sono più vicini. Casa mia è ancora lontana. Cerco di correre. I passi li sento sempre dietro. Mi infilo in un cortile.”
Nuovi schiocchi di dita. Perché lo fa? Vuole tenermi cosciente?
“Descrivi il cortile.
“E’ buio. Solo una luce da una porta a vetri sulla destra. Il cortile è chiuso.”
“Ci sono rumori?”
“Il rumore di una macchina per cucire che viene dalla porta illuminata.”
“Dietro la porta si vede qualcuno?”
“No. Il vetro è bianco non trasparente. Deve essere un laboratorio.”
“Che altri rumori senti?”
Schiocchi di dita. Vera è stravolta. Ha staccato la schiena dalla poltroncina e siede dritta, tesissima.
“Quei passi!”
Lui rimane calmo. Ho paura. Ma lui è calmo.
“Cosa accade ora?”
“Mi sono fermata. Non posso più scappare. Mi giro e lo vedo.”
“Chi vedi?”
“L’uomo che mi ha seguita.”
“Lo conosci?”
“No.”
“Descrivilo.”
“E’ bruno, non tanto alto, né magro né grasso, ha una barbetta nera, occhi scuri.”
“Che età ha?”
“…Quaranta o quarantacinque anni, credo.”
“Cosa fa ora?”
“Mi guarda.”
“Dice qualcosa?”
“Sì.”
“Cosa ti dice?”
“Dice: ‘Ma dove scappi. Ora ti faccio vedere io’.”
Schiocca sempre le dita. Mi fa bene, si vede.
“Ora cosa fa?”
“Mi spinge a terra.”
“Descrivi la scena.”
“Dice ‘Ora ti faccio vedere io’ e mi dà una spinta. Cado a terra e la bottiglia si rompe. Lui mi viene sopra.”
Vera trema come una foglia, sempre seduta dritta, il viso bianco e stravolto. Sto tremando, tremo, non riesco a piangere, vorrei piangere! Schiocchi.
“Cosa fa ora?”
“E’ su di me. Mi alza la gonna e lo sento premere tra le mie gambe, in mezzo alle gambe.”
“Ti ha abbassato le mutandine?”
“No.”
Schiocchi, ancora schiocchi. Sento male, mi fa male.
“Ti penetra?”
“No. Preme sulla parte sinistra. Mi fa male!”
“Tu cosa fai?”
“Sono a terra, guardo verso la porta illuminata, ma è chiusa, non c’è nessuno.”
“Poi?”
“Ha smesso di premere. Si alza e se ne va.”
“Che fai ora?”
“Rimango ancora un po’ a terra, da sola. Mi fa ancora male. Poi mi alzo e mi pulisco il vestito.”
“Dopo?”
“Esco dal cortile e vado a casa.”
“Ok. Ora torna al momento in cui entri nel cortile. Sei lì?”
“Sì, sono entrata.”
Mi fa ripetere tutto.
Stesse domande, chiedendo altri particolari. Le fa rivivere la scena una seconda volta, poi una terza, poi altre ancora. Schiocca le dita sempre meno frequentemente. E le fa ripetere tutto daccapo, ogni volta. Mi fa ripetere di nuovo. Sarà la decima? Forse di più.
“Che odori senti lì a terra?”
“Odore di tabacco. Ho il naso proprio contro il taschino della sua camicia. Sento odore di tabacco.”
“Che altri odori senti?”
“Quello della candeggina. La bottiglia si è rotta cadendo.”
“Che dolori senti?”
“Un sasso a terra che mi preme sulla schiena… poi il polso, mi fa ancora male, mi ha strattonata afferrandomi un polso. E in mezzo alle gambe, proprio sotto, in mezzo, sulla sinistra, mi fa male e mi brucia.” Ora sento male di meno. La prima volta che me lo ha fatto dire sentivo più male.
“Vediamo se è rimasto qualcosa… Ripeti di nuovo, dal cortile.”
Sto ripetendo come se fosse una storia di un’altra. Ma mi è accaduto davvero?“Ora è pulito. Va bene. Vai al momento in cui entri in casa. Dimmi quando sei lì.”
“Ci sono.”
“Descrivi cosa accade.”
“Mia madre mi guarda e mi domanda della candeggina. Le dico che la bottiglia mi è caduta correndo e si è rotta. Lei si preoccupa e cerca di alzarmi la gonna per vedere se mi sono sbucciata le ginocchia. Io mi spavento e mi tiro indietro. Ho paura che si accorga di quello che è successo.”
“Torna al momento in cui entri in casa. Racconta di nuovo cosa accade.”
Le fa ripetere cinque volte la scena.
“Bene. Ora vai al momento in cui sei sulla canna della bicicletta di tuo nonno.”
“Sì.”
“Tuo nonno dice qualcosa?”
“Canta. Inventa una musica tutta sua e canta ‘la mia bella Nini’…”
“Molto bene. Ora vai a stamattina, a quando ti sei alzata.”
“Ci sono.”
“Cosa stai calzando?”
“Le mie ciabatte di spugna beige.”
“Benissimo. Che giorno è oggi?”
“Giovedì.”
“Che data?”
“Il 18 di Elùl.”
“Anno?”
“Siamo nel 5761.”
“Bene. Ora conterò da cinque a uno. All’uno aprirai lentamente gli occhi. Qualsiasi cosa detta non avrà alcuna suggestione su di te. D’accordo?”
“Sì.”
Sta contando… tre… due… il canto degli uccellini! …uno, ha detto uno…
Vera riapre gli occhi e si guarda attorno un po’ smarrita e confusa. La luce è cambiata, è un po’ più scuro, ma le luci non sono accese. Stesso odore neutro. La finestra è socchiusa come prima, esattamente nella stessa posizione. Il canto degli uccellini, melodico, rilassante. Alla fine guarda lui, lo psicologo. Riesco a guardarlo negli occhi, non mi imbarazza, ha uno sguardo buono e dolce.
“Ora tocca il tavolino accanto a te.”
Vera si piega un po’ in basso e lo tocca.
“Ora tocca con la mano il pavimento.”
Si piega di più e ubbidisce. E’ freddo, è anche pulito.
“Ora àlzati. Vai al muro e toccalo.”
Lo fa. Mi gira un po’ la testa.
“Vai alla finestra e tocca il vetro.”
Va alla finestra, camminando più sicura. Guarda anche fuori. Che bel giardino che ha. Ben curato, anche. Ora sto bene.



Uscendo dallo studio, aveva ritrovato il traffico cittadino che le sembrò, quella volta, gradito e perfino rassicurante. Si sentiva riconoscente per quei rumori, i soliti di sempre; per quegli odori che non erano cambiati; per tutto ciò che era attorno, e che ritrovava. Incamminandosi lungo il marciapiede avvertiva un leggero senso di irrealtà se guardava lontano, ma sapeva che era perché aveva tenuto gli occhi chiusi a lungo. Stava bene. Era serena.
E negli orecchi aveva ancora l’eco del canto degli uccellini.

VERA - 8. Marionette


Usciti dalla Crota Piemunteisa, rifocillati e un po’ su di giri per il Frèisa, continuarono la loro passeggiata per Milano. Vera si era messa sottobraccio a Iul.
“Vieni. Sono io la guida!”
Passando da Piazza Fontana avevano fatto il giro dietro il Duomo. Andarono fino in Piazza Cordusio, da cui ebbero la vista del Castello Sforzesco. Ne furono attratti e si incamminarono lungo Via Dante per raggiungerlo. A circa metà della via si fermarono alla Cremeria sulla destra, concedendosi un cono di panna montata spolverata di cannella.
Giunti in Largo Cairoli, quasi davanti al Castello, Vera, alzandosi sulle punte dei piedi, disse piano all’orecchio di Iul:
“Devo andare in bagno.”

Entrarono nel locale all’angolo, in cui preparavano stupendi frullati di frutta. Dopo aver sorseggiato il suo frullato, Vera si scusò e si assentò in cerca della toilette.
A Iul era balenata l’idea appena aveva visto, accanto al locale dei frullati, un negozio di dischi. Vi entrò in fretta, approfittando dell’assenza di Vera.

Vera lo ritrovò al banco, mentre finiva il suo frullato.
“Cosa prevede ora la guida?”
“Ti va di camminare ancora?”
“Perché no?”

Camminarono lungo Foro Buonaparte, quasi in silenzio, fino a Piazzale Cadorna. Lui le circondava le spalle col braccio, tenendola stretta.
“E’ quella cos’è?”
“Una stazione ferroviaria.”
“La conosci proprio bene Milano.”
“No. Ho letto la scritta: Ferrovie Nord Milano.”
Risero.
“Milano è come te l'aspettavi?”
Vera ci pensò, cercò le parole:
“E’ molto di più. Per anni ho sfogliato libri su Milano, guardato fotografie, cercato sulle mappe le vie e i posti di cui mi parlava mio nonno. E ora è tutto qui davanti a me, vero e reale. E poi…”
Iul la osservava, interessato. Vera era quasi commossa mentre – guardando davanti a sé senza realmente vedere le cose – diceva ciò che le veniva dal suo mondo interiore di sensazioni e pensieri.
“E poi per me l’Italia, e particolarmente Milano, erano posti leggendari, che potevo vivere solo sui libri. L’idea che esistessero veramente e che potevo visitarli non la ho mai avuta, forse perché erano legati a mio nonno e al suo passato che non ho mai vissuto, e forse anche perché erano così lontani…”
“E ora sei qui.”
Vera ebbe un lampo negli occhi e un fremito di gioia.
“Già!”
Ripresero la loro passeggiata, incamminandosi lungo Via Carducci. Iul, leggendo il nome della via, lo aveva pronunciato secondo la pronuncia ebraica, dicendo Carducchi. Vera lo aveva corretto e poi si era fermata, pensierosa.
“Carducci… Via Carducci…”
Iul la scrutava, in attesa.
“Sto cercando di ricordare… Se avessi qui la mia cartina di Milano! …Qui vicino, in questa zona, c’è qualcosa che non mi viene in mente…”
“Un museo?”
“No.”
“Una chiesa, un monumento?”
“No, no.”
“Ma sai la via?”
“Quella sì… ma non rammento cosa c’è. Eppure era qualcosa che mi affascinava, di cui mio nonno mi parlava…”
“Se la via la sai, andiamoci, allora!”
Come aveva fatto, lei così pratica, a non pensarci? Fermò una donna anziana che passava con un piccolo barboncino bianco al guinzaglio, tanto carino da sembrare un peluche.
“Ci scusi, signora… Via degli Olivetani?”
“Olivetani… ah, sì. In fondo a questa via, a destra, prendete Via San Vittore, poi la prima a sinistra.”
“Grazie, signora.”

In Via San Vittore si trovarono davanti al Museo della Scienza e della Tecnica.
“E’ questo, Vera?”
“No. Prendiamo la prima a sinistra…”
Svoltarono in Via degli Olivetani. Iul osservò le guardiole sui muri alti.
“Pare un carcere…”
Diversi bambini, con i loro genitori, camminavano lungo lo stretto marciapiede, dalla parte opposta al muro del carcere. Vera volle seguirli. Pochi passi e furono davanti al Teatro delle Marionette. Vera era raggiante.
“Eccoci!”
“E’ un teatro…”
“Sì! Il teatro delle marionette!”
Iul la guardava intenerito, partecipando alla gioia di lei, così semplice. Lo spettacolo non era ancora iniziato e Iul suggerì di entrare.
“Ma tu non capirai una parola…”
“Parteciperò vedendo la tua gioia.”
Gli diede un bacio affettuoso e pieno di gratitudine.
Seduti sulle loro poltroncine, tra tanti bambini festosi e vocianti, Vera dovette alzare la voce per farsi udire da Iul.
“Questo spettacolo lo capirai benissimo anche tu. Danno Pinocchio.”
Si fece buio e gli schiamazzi dei bambini cessarono d’incanto. La scenografia era suggestiva, il gioco di luci spettacolare, il sonoro perfetto, i colori vividi, le marionette parevano vive nella profondità del palco oltre la ribalta. Nell’oscurità del piccolo teatro – grazioso, ovattato, con un profumo buono e delicato di fiori - il palcoscenico spiccava con le sue luci intense e colorate.
Iul osservata attorno i visi ammaliati dei bambini. E il viso di lei, estatico.


Ebbero qualche difficoltà a riabituare gli occhi alla luce, uscendo insieme a decine di bambini che si mettevano disordinatamente in fila davanti al piccolo bar del teatro per acquistare una merendina o una bevanda.
“Sei stanca?”
“No. Che ore sono?”
“Le diciotto e trenta locali. Per noi le diciannove e trenta.”
“A che ora abbiamo l’aereo?”
“Vera… C’era un volo alle dodici e venti, ma era troppo presto. Non ho potuto far altro che prenotare il successivo… insomma, il nostro volo è a mezzanotte e cinquantacinque.”
“Meraviglioso.”
“Non è troppo tardi?”
“No che non lo è.”
“Ma hai idea dell’ora in cui arriveremo?”
“Stanotte, immagino.”
“Saremo a Tel Aviv domattina alle cinque e quaranta.”
“Ma sarà sabato e non lavoreremo, no?”

Presero un taxi e fecero un giro nella zona dei navigli. Poi Vera volle vedere la Stazione Centrale. Qui visitarono anche il Museo delle Cere. Per la cena decisero di andare in pizzeria. Consigliati dal tassista, furono condotti in Via Spontini.
Vera non pareva toccata dalla stanchezza. Era comunque una donna resistente. A tavola Iul fu brillante e lei pendeva dalle sue labbra. Era affascinata dal suo modo di parlare, dalle cose che diceva. Lei si sentiva a suo agio. Parlarono perfino di Dio, della loro fede, di quello che credevano.
“Sono stupita delle cose di cui parlo con te. Non avrei mai pensato di poter parlare con qualcuno di una cosa così intima come Dio. Anzi, ero certa di non poterne parlare con nessuno… troppo personale, troppo intimo.”
“E nel tuo cassetto segreto cosa conservi?”
“Cassetto segreto?”
“Ogni donna ne ha uno, no? Non necessariamente un cassetto… magari è una tasca della borsetta o una scatola riposta nell’armadio. Un posto dove conserva un biglietto, una foto, una foglia, un fiore secco, cose del genere.”
“…Mi stupisci ogni volta.”
Iul le sorrise. Lei lo guardò timidamente, pronta a cogliere nel suo sguardo qualsiasi ombra di reazione a ciò che stava per dire.
“Io ho proprio un cassetto. Quello del mio comodino.”
Lo sguardo di Iul rimase benevolo, non si adombrò. A Vera venne in mente lo sguardo buono e dolce dello psicologo, in cui non aveva letto nessun biasimo o compatimento per le cose imbarazzanti che aveva appena rivelato di sé nella seduta. Ma pensò anche che in fondo lo psicologo era un estraneo di cui non le importava molto. Si era spinta troppo oltre, ammettendo di avere il suo cassetto segreto? Non era pentita di questo, ma ora era in difficoltà, non sapendo come continuare. Perché, continuare, doveva: Iul era troppo importante per lei. Doveva. Ma proprio lì, ora? In quel chiasso che odorava d’aglio e di origano?
Un giovane bruno, in giacca e cravatta, stava passando tra i tavoli con delle rose color rosso cupo, col gambo lungo, ciascuna ben avvolta in una carta lucida e trasparente chiusa al fondo da un fiocco giallo. Iul gli fece un cenno. Ne prese una e la porse a Vera.
“Grazie…”
E quel grazie includeva forse anche la sua riconoscenza per averla tolta dal disagio di quel momento.

VERA - 9. Una rivelazione


Erano all’interno dell’Aeroporto Malpensa di Milano. Le ventitrè e trenta. Trovarono un posto tranquillo dove sedersi, davanti alla vetrata che dava sulla pista. Al di là dei vetri, grossi aerei decollavano muti con i loro potenti fari accesi.
Vera, seduta accanto a Iul, reclinò il capo sulla spalla di lui. Iul le circondò le spalle con un braccio, tenendola stretta a sé. Rimasero così per alcuni minuti, in silenzio. Quando le uniche persone vicino a loro – una famigliola con due gemelline – si furono alzate dopo aver udito la chiamata del loro volo, Iul attese ancora un po’, poi disse con voce calma e dolce:
“Il tuo cassetto, dunque?”
Vera rimase in silenzio e Iul si impose di non parlare, sapendo che se avesse rotto lui il silenzio avrebbe compromesso tutto.
Quel silenzio poteva essere per Iul imbarazzante, ma per Vera divenne insostenibile.
“Il mio cassetto…”
“…e i suoi segreti…”
“Già.”
Si era ricreato lo stesso silenzio, ma Iul sentiva che era stato fatto un passo avanti: lo rivelava quel già di lei. Tacque di nuovo, in attesa.
“…Quando scoprii che Dani aveva un’altra, quello fu il periodo più brutto della mia vita. Ero disperata, non sapevo che fare. Lui negava e io dovevo sapere a tutti i costi. Un giorno incontrai per caso un mio vecchio collega, un tipo strano, uno di quelli che ha una ragazza dopo l’altra. Insomma questo fa l’ironico, fa delle insinuazioni su Dani, si diverte a vedere quanto sto sulle spine, capisce che voglio sapere a tutti i costi…”
“Continua…”
“Quando lavoravamo insieme, anni prima, mi era sempre stato dietro. Mi parlava di casa sua, di come era fatta, di come aveva arredato una stanza tutta particolare…”
“Particolare?”
“Sì, ti ho detto che Ran era strano. Ran è il suo nome.”
“E che aveva di particolare?”
“Una stanza buia, con luci soffuse, profumata con incensi, con tendaggi colorati, tappeti… e un letto reclinato su cui legava, ma senza violenza, la sua conquista del momento, usando dei veli leggeri e colorati, profumati.”
“La conosci bene, la stanza.”
Lo aveva detto badando attentamente a non dare un tono di ironia o di biasimo alla frase. Vera lo recepì e continuò a parlare.
“Ero come impazzita, dovevo sapere, sapere a tutti i costi. Sì, ci andai.”
“Più di una volta?”
“Sì… due o tre volte.”
“Poi?”
“Ran? Oh, quello era un cretino… più visto né sentito. Ma seppi che lei si chiamava Maya, una collega di Dani, insegnante di inglese. Pensa, la avevo anche ospitata a casa nostra, una volta. Una bionda, un po’ grassoccia, non proprio bella… ora parlarne non mi fa più nulla… ricordo che quando venne a casa mia, quella volta, notai che aveva delle belle gambe. Era seduta sul divano, con le gambe un po’ di lato… aveva un che di sensuale. Comunque, Dani negò sempre, diceva che era solo un’amica. Io rischiai l’esaurimento…”
“E come andò a finire?”
“Con Dani, male. Per un po’ continuammo ad avere rapporti intimi, per me era una specie di rivalsa su Maya, un modo per non lasciarlo a lei. Ma poi lo disprezzavo troppo e diventammo estranei. Lui andava e veniva, sempre calmo e sicuro di sé, come se niente fosse. Non lo credevo capace di arrivare alla bassezza a cui arrivò.”
Iul comprese che Vera alludeva ad altro.
“Cosa accadde?”
La teneva sempre stretta a sé, continuando a circondarle le spalle con un braccio. Lei teneva la mano libera di lui tra le sue, sfregandola nervosamente. Iul sentiva, nonostante la concitazione del momento, la morbidezza delle mani di lei, e quel contatto gli dava piacere. Avvertiva anche il leggero sudore nervoso di lei: il suo odore lo conturbava. Non era strano che provasse in quel momento il desiderio di fare l’amore con lei?
“Poi accadde una cosa che non mi fa onore…”
“Non essere dura con te stessa, Vera.”
“Dura? Sono da disprezzare, altro che dura. Mi disprezzerai anche tu…”
“Cosa accadde?”
“Ero frustrata, avvilita, depressa… annientata. Forse ero troppo vulnerabile, in quel periodo, non so… Insomma, conobbi un ragazzo.”
“E cosa c’era di disprezzabile in ciò?”
“Ho detto…ragazzo. Questo rendeva la cosa disprezzabile, la sua età.”
“Era così giovane?”
“Sì, molto più di me. Aveva solo diciannove anni.”
“E come lo avevi conosciuto?”
“Dal parrucchiere. Portava i capelli un po’ lunghi, era lì anche lui. Era simpatico, maturo, un bel ragazzo. Sapeva ridere e scherzare, era disinvolto. Chiacchierammo piacevolmente. Poi, usciti, mi invitò a bere qualcosa. Mi divertiva, mi distraeva, non pensavo minimamente a quello. Alla fine, usciti dal bar, mi baciò. Ne fui sorpresa, non me lo aspettavo.”
“A cosa alludevi parlando della bassezza di Dani?”
“Ah… al fatto che Dani sapeva di Dror, il ragazzo. Glielo avevo detto io. Lui non aveva fatto una piega. E una sera in cui Dani era rientrato tardi, gli feci una scenata tremenda di gelosia. Piangevo, urlavo. E lui, per calmarmi, sai che fece? ‘Non fare così, dài’, diceva. E poi mi disse di telefonare a Dror, di uscire con lui. Arrivò al punto di dirmi: ‘Dammi il suo telefono, te lo chiamo io, dài…’”
“Capisco. …E con questo ragazzo quanto è durata?”
Vera rimaneva in silenzio. Iul capì.
“Dura tuttora?”
“Non proprio… ci vediamo ogni tanto.”
“Deve essere una persona speciale, allora.”
“Direi particolare… Ora è fidanzato, fa l’ultimo anno di università. Vedi, in quel periodo mi sentivo finita, brutta, come se a nessuno importasse di me. L’interesse di Dror mi lusingava: lui così giovane e bello, che poteva avere le ragazze che voleva, lui si interessava a me… Poi si confidava, mi aveva detto del suo problema. Lui soffre di eiaculazione precoce, ma con me non gli è mai accaduto, nonostante sia sempre focoso e non tanto delicato.”
“Lo ami?”
“Nooo!”
“Una questione di sesso, allora?”
“Per me non è possibile che ci siano solo questioni di sesso. Non sono così.”
“Cosa ti piace di lui, allora?”
“Piace… forse meglio dire piaceva. Ci vediamo raramente. E l’ultima volta ho trovato una scusa per non uscire con lui… Avevo già deciso di interrompere questa relazione. Comunque, mi piaceva il fatto che si interessasse di me. E a volte mi faceva tenerezza, come quando si aggiustava gli occhiali spingendoli con un dito sul naso…”
“Che altro, Vera?”
“Non ti basta?”
“E prima di scoprire che Dani ti tradiva, tu gli eri fedele?”
“Sì, a parte Iosèf. Ma quella è una storia vecchia.”
“Prima di Dani?”
“Lo conoscevo da prima, sì. Lui era già sposato. Conoscevo bene anche la moglie, una donnetta insignificante. Poi ho conosciuto Dani.”
“E hai continuato a vedere Iosèf?”
“Per un po’, sì… poi si è ammalato, ora non può più quasi muoversi.”
Iul rimase in silenzio. Vera era pallida, aveva perso il suo sorriso, sembrava avesse cambiato addirittura fisionomia, pareva invecchiata e stanca. Attorno a loro continuava a non esserci nessuno. Già da un pezzo avevano smesso di accorgersi della gente che andava e veniva. Non sentivano neppure più gli annunci degli altoparlanti.
Vera si era staccata da lui. Aveva perso ogni vitalità. Alla fine disse:
“Dimmelo.”
“Cosa?”
“Che sono una… Dimmelo.”
Iul ignorò la provocazione di lei. Le disse:
“Vediamo di riassumere il concetto di tutto… E’ come se tu, potendolo, avessi detto a Dani: ‘Tu sei il mio compagno, mio e basta. Io faccio quello che mi pare, ma tu devi stare al tuo posto accanto a me, senza nessuna Maya o altre’. E’ così?”
“Sì.”
Iul la guardava senza giudicarla. Nel suo sguardo tranquillo non c’era accondiscendenza, ma neppure giudizio.
“Dimmi cosa pensi di me.”
“Io non ti giudico, Vera.”
“No?”
“No. E poi…”
“E poi?”
“E poi… poi, sono innamorato di te.”
Non se lo aspettava. Ebbe un risolino nervoso, provando imbarazzo e insieme sollievo.
“Cara signora… le va un caffè? Credo ci voglia.”
“Sì, ci vuole.”


Al bar Iul cercò di distrarla dai pensieri, insistendo perché prendesse un dolce insieme al caffè.
“Tu non ne vuoi?”
“No.”
“E perché insisti con me?”
“Per viziarti, cara.”

VERA - 10. Estasi


Ultima chiamata per il volo El Al 488 per Tel Aviv. Vera riudiva nella sua mente quelle parole. Strano come le fossero rimaste impresse insieme a quella scritta che aveva letto sullo zaino accanto ad una ragazza addormentata su una poltroncina all’aeroporto. Forse perché mentre leggeva quella frase sullo zaino, dove l’occhio le era caduto per caso, proprio in quel momento c’era stata la chiamata dall’altoparlante.
Vera si era alzata dal muretto sulla spiaggia, su cui era seduta. Si era tolta le scarpe e aveva camminato sulla sabbia fino in prossimità della battigia. Aveva guardato l’orizzonte, dove finiva la vista del mare. Poi aveva alzato lo sguardo verso le nuvole e aveva visto un aereo, silenzioso e luccicante per i riflessi del sole. Lo aveva seguito con lo sguardo fino a perderlo di vista. E quando aveva abbassato gli occhi sulle piccole onde davanti a lei, la sua memoria aveva rievocato quella voce. Ultima chiamata per il volo El Al 488 per Tel Aviv. E subito aveva rivisto la scritta sullo zaino: Dio c’è.

Ultima chiamata per Tel Aviv. Il nostro volo. Ultima chiamata. Ironia? Profezia? Ultima, l’ultima. Dio c’è. Aveva un senso tutto ciò?
Rammentò la ‘amidà, la parte da recitare in piedi della minchà, la preghiera pomeridiana. Mio Dio, ho peccato, ho trasgredito, ho commesso colpe, sono responsabile, ma tutto questo non mi è giovato a nulla. Tu sei stato giusto per quanto mi è capitato, poiché hai operato con senso di giustizia, mentre io ero colpevole. Era dunque questione di giustizia? Aveva raccolto semplicemente quello che aveva seminato? Forse doveva solo andare così: le cose belle, quelle vere, non durano. Già non durano di loro, figurarsi se potevano durare per lei. Ma intanto era capitato proprio a lei, Vera, di provare l’amore vero, quello unico e irripetibile.

Quella sera, a Milano, dopo aver svuotato buona parte del cassetto segreto del suo animo, si sentiva sollevata. Era stanca, esausta, ma Iul aveva saputo confortarla. Durante il viaggio di ritorno era stato tenero e premuroso. La aveva fatta sentire protetta e al sicuro, specialmente quando le aveva aggiustato la coperta dopo che avevano reclinato le loro poltrone nella semioscurità dell’aereo.
“Ora cerca di dormire…”
E lei aveva dormito davvero. Ne aveva bisogno. Si era svegliata solo un paio di volte, per pochi secondi: giusto il tempo di ricordare dove fosse, sentendo il rumore dei motori. E subito si era riaddormentata con il pensiero che Iul era accanto a lei. La seconda volta, prima di richiudere gli occhi, aveva perfino visto le stelle, nitidissime, oltre l’oblò.
Prima dell’atterraggio, a bordo avevano servito del caffè e Vera lo aveva particolarmente apprezzato. Si era sentita ristorata, pronta per affrontare di nuovo la vita. E aveva apprezzato il sole d’Israele, uscendo dall’aeroporto Ben Guriòn. Noi la chiamiamo la terra. Aveva rivisto le palme. Era a casa. Scesa dall’aereo e salita alla terra.
Alle sei del mattino di quel sabato Iul la aveva lasciata sotto casa, abbracciandola.
“Non dimenticare la tua rosa…”
“Grazie…”
“E c’è un’altra cosa per te.”
Gli occhi di lei, stanchi, lo interrogavano. Solo Iul poteva interpretare il significato di quella impercettibile piccola luce che si accendeva appena al fondo del color mare dei suoi occhi.
“…Per me?”
La sua voce era quasi timida, ma dolce.
“Per te.”
Iul le porse il pacchettino che aveva tratto dalla tasca.
“Ora vai…”
Fece segno di sì col capo. Gli sorrise. Scomparve dentro casa.
Appena entrata lasciò cadere la borsetta sul tavolo della cucina e si recò in camera da letto. Si coricò sopra le coperte, senza neppure togliersi le scarpe. Aveva ancora la rosa in mano. Si girò di lato per appoggiarla sul comodino e, nel farlo, guardò il cassetto. Ogni donna ha un cassetto segreto. Si lasciò cadere di nuovo sul letto. Teneva tra le mani il pacchetto di Iul. C’è ancora una cosa per te. Era stata lì lì per rispondere: “Sei proprio l’uomo delle sorprese”, con l’intenzione di fargli piacere. Ma si era fermata in tempo, nel timore che lui pensasse: “Anche tu sei la donna delle sorprese”. Aveva voglia di piangere, ma non ci riusciva. Si fece forza e scartò il pacchetto. Lesse il titolo sul CD: Charles Aznavour. Sorrise. Poi scorse i titoli delle canzoni… ed ebbe un tuffo al cuore quando il suo sguardo si fermò su un titolo: Lei.
Pianse.


Da quanto tempo squillava il telefono? Fece uno scatto giù dal letto e corse nell’altra stanza.
“Pronto?”
“Buonasera, Vera.”
Era Iul, e parlava con allegria.
“Buonasera? …Ma che ore sono?”
“Quasi le sei. Di sera, ovviamente. Dormivi ancora?”
“Sì…”
“Immaginavo… non rispondevi al telefono.”
“Il telefono… io sentivo uno squillo, ma sognavo che la hostess andasse a rispondere…”
Iul rise di gusto. E lei dietro a lui, trascinata dal suo buon umore. Si era seduta, e si stava togliendo le scarpe usando un piede sull’altro.
“Tu hai dormito?”
“Dormito. Ma, ahimè, non ho sognato la hostess.”
“Sciocco.”
“Ho un invito da farti, ma ho un dubbio…”
“Un dubbio?”
“Non so se invitarti a… a colazione o a cena.”
Sorrise, divertita. E, contagiata dalla disinvoltura di lui, si sorprese a dire:
“Facile… prima a cena e poi a colazione.”
“Oh… questo è un programma che mi piace davvero. E dimmi, per cena preferisci caprini e sgombri o una pizza?”
“Stasera… rigorosamente ebraico!”
“Approvato. A che ora passo?”
“Il tempo di fare una doccia… alle sette?”
“Alle sette.”



Vera aveva ritrovato il benessere del giorno prima. Mentre giravano in auto per Tel Aviv, tra le prime luci che si accendevano nel crepuscolo, alla ricerca di un buon ristorante, sentiva in sé quella stessa gioia che aveva provato il giorno prima a Milano. Non era esuberanza, si trattava piuttosto – se così si poteva dire – di una specie di “realizzazione dell’anima”. E per lei anima significava corpo e mente e cuore e animo, tutto insieme. Il suo naturale piacere per le cose della vita era in quei momenti pienamente goduto. Provava quel senso pieno di rilassamento che viveva ogni volta che aveva raggiunto una meta; sprigionava vivacità ed energia, se pur contenuta dalla sua timidezza.
Quella sensazione di benessere era proseguita anche a tavola. Iul era naturale, spontaneo, sereno: questo le dava conferme. La buona cena completava il suo sentirsi appagata, perché Vera sapeva amare anche la buona tavola. La carne era cotta a puntino, le salse eccellenti. Conversavano piacevolmente.
“Dimmi del tuo lavoro.”
“Che vuoi sapere?”
“Come sei sul lavoro?”
“Posso citarti le parole del mio psicologo…”
Vera era allegra, sorseggiava la sua birra. Pur non essendo necessariamente disinvolta e brillante, nei rapporti umani era socievole e simpatica, adattabile. Ma lì con Iul era tutta un’altra cosa: era se stessa.
“Sentiamo…”
“Dunque… parole sue: lei, signora, è una lavoratrice, è laboriosa, sa caricarsi di impegni anche onerosi e sono certo che sia molto apprezzata per la sua disponibilità verso gli altri; la sua natura la porta a prediligere un lavoro fisso, ma negli affari riuscirebbe bene, perché ha fiuto e saprebbe muoversi con calcolo e diplomazia ma senza intrighi. Questo.”
“Ed è vero?”
“Vero.”

Dopo cena fecero due passi sul mare. Iul le domandò se avesse piacere di ascoltare un po’ di musica in qualche locale.
“Musica, sì. Mi piace molto la musica. Ma non in qualche locale. Mi piacerebbe ascoltare con te un certo CD che ho casa.”

Si erano baciati appena richiusa la porta. Vera aveva ancora la sua borsetta in mano. Non aveva mai provato un desiderio così forte di fare l’amore. Si sentiva consapevole del proprio potere di seduzione, e questo aumentava la sua voglia che si faceva ansiosa. Iul sapeva percepire perfettamente i fervori interiori di lei, sapeva intuire attimo per attimo i suoi desideri.
Sulle coperte dove solo poche ore prima dormiva, Vera si abbandonava alla tenerezza di lui. Iul si stava rivelando dolcissimo oltre il modo che lei aveva immaginato. Provava un’estasi mai conosciuta e neppure mai immaginata. Iul sapeva seguire i ritmi di lei, sapeva anzi rallentarli sapientemente: sapeva far crescere il suo desiderio fino al limite del sostenibile. Con la sua calma dolce e tenera le prestava tutte le attenzioni. Il piacere di lui era nel sentire il piacere di lei.
Vera provò un brivido deliziosissimo che le percorse tutto il corpo e le fece girare la testa: Iul aveva appoggiato con soavità le sue labbra sulla parte tenera a metà del braccio di lei, dietro il gomito, e vi aveva indugiato sfiorandola e baciandola delicatamente.
Non aveva fretta di spogliarla. Si insinuava anzi - ora con le labbra e ora con le dita - tra gli abiti di lei, in un gioco che la accendeva di più. Baciandola in questo modo era sceso con le labbra appena sotto la gonna di lei, sulla sua pelle che fremeva, baciandola dolcemente prima sopra il ginocchio e poi all’interno delle gambe, vicino al ginocchio. Lentissimamente era risalito con le labbra più su, continuando a baciarla all’interno delle gambe, spostando piano la gonna di lei con il proprio viso, ma senza scoprirla del tutto. Vera fremeva nell’attesa.
E si morse un labbro per l’insostenibilità di quella esasperazione quando le labbra di lui si erano arrestate e avevano poi iniziato a ridiscendere. Vera stava per provare un momento di irrequietezza, di nervosismo, quando fu invece nuovamente sorpresa ed ebbe un sussulto improvviso per il piacere intensissimo che la invase quando lui la baciò con delicatezza e indugio proprio come aveva fatto prima, ma questa volta nella parte tenera a metà gamba, dietro il ginocchio.

Iul era preso dall’odore intimo di lei, che lo confondeva. Vera era completamente distesa, le mani lungo il corpo, aggrappata con le dita come artigli alla coperta, tesissima, muovendo piano il bacino sotto il viso di Iul. Con gli occhi semichiusi disse sottovoce, lentamente:
“Guarda che sei fai così…”
Ed era, insieme, una giustificazione ed un invito a non fermarsi.

Sul comodino, sopra il cassetto segreto, una rosa rosso cupo era ancora viva nel suo vaso di vetro trasparente.