sabato 25 ottobre 2008

Il concerto per violino e orchestra in mi minore, Opera 64, di Felix Mendelssohn Bartholdy


Il primo tempo è profondamente triste. La tristezza – così familiare – si esprime nel tema orecchiabile; spesso semplice e spontaneo, ma mai banale. Il violino esprime i moti dell’animo caduto in una profonda mestizia. Questo sentimento, intimamente sofferto, trova la sua piena espressione nel dialogo costante con l’orchestra. La suggestione è coinvolgente. A tratti si rasenta il lamento, a tratti affiora l’incontenibile bisogno di pianto. È lo sconforto. L’orchestra risponde sulle stesse emozioni, empaticamente. Non ci sono tentativi di consolazione. C’è piena partecipazione, condividendo la stessa situazione. Questa tristezza pare non trovare via d’uscita. Vengono esplorati tutti i meandri che essa stessa si scava, toccando culmini di disperata sofferenza.
Neppure nel secondo tempo si trova pace. C’è, anzi, una depressione. La tristezza diviene ancor più profonda e inconsolabile. Il lamento lascia il posto all’afflizione. Tutto diviene più cupo. La capacità di reagire è svuotata.
Nel terzo tempo c’è l’immancabile ripresa: l’animo ubbidisce all’imperativo impulso di sopravvivenza che sale da dentro. Come spesso accade quando si è toccato il fondo, basta poi un pretesto per rispondere all’accenno di un sorriso, pieno di comprensione, che ci viene rivolto. Ci si aggrappa allora al nuovo e salvifico stato d’animo. Quasi autoironicamente affiora un atteggiamento nuovo. Questa vena che sa di buono ci sorprende e ci seduce. Fa bene all’animo. L’orchestra coglie al volo l’attimo favorevole, e – come un amico che sa dare una pacca sulla spalla nel momento giusto – dà lo spunto al violino per uscire dal vicolo cieco della sua malinconia. L’autoironia diventa facile. Il violino cede allora al bisogno di recupero, abbandonandosi alla insperata e imprevedibile letizia, che – un po’ nervosa, per reazione, all’inizio – diventa quasi incontenibile e lo conquista. Lo stato emotivo si placa: la serenità è raggiunta. Non è la gioia di un momento. È la pace consapevole maturata dopo l’esperienza sofferta. Ora c’è equilibrio e stabilità. È l’appagamento dopo la ritrovata via d’uscita. È la libertà e la pace conquistata che non ha però dimenticato ciò che ha sofferto. La profonda tristezza è stata esplorata, vissuta, fatta propria; è divenuta nutrimento per la crescita di sé. L’io ne esce rafforzato. Il nuovo modo di essere è stato arricchito da quella sofferenza. L’io-violino la porta ancora in sé, ma ormai superata. Sa ora guardarla con distacco. Non la rinnega, ma è solo un ricordo nella sua nuova e positiva visione delle cose. Ecco che allora il tema musicale della tristezza iniziale si riaffaccia - per un momento - proprio in chiusura. Ma non sconvolge più: lo si rammenta con un sorriso, guardando avanti, attratti dalla grandiosità della vita.

domenica 21 settembre 2008

Omaggio a Etty


Esther Hillesum, detta Etty, nacque nei Paesi Bassi nel 1914. Era ebrea. Etty aveva 29 anni quando morì il 30 novembre del 1943 ad Auschwitz. Il 3 giugno di quell’anno era rientrata volontariamente nel campo di concentramento di Westerbork, rifiutando la possibilità di salvarsi nascondendosi. Dal treno con cui i nazisti la trasferivano da Westerbork ad Auschwitz il 7 settembre del 1943, Etty lanciò una cartolina indirizzata ad un’amica, poi ritrovata lungo i binari e spedita. Era il suo ultimo scritto: “Christien , apro la Bibbia a caso e trovo questo: ‘Il Signore è il mio alto ricetto’. Sono seduta sul mio zaino nel mezzo di un affollato vagone merci. Papà, la mamma e Mischa sono alcuni vagoni più avanti. La partenza è giunta piuttosto inaspettata, malgrado tutto. Un ordine improvviso mandato appositamente per noi dall’Aia. Abbiamo lasciato il campo cantando, papà e mamma molto forti e calmi, e così Mischa. Viaggeremo per tre giorni. Grazie per tutte le vostre buone cure. Alcuni amici rimasti a Westerbork scriveranno ancora ad Amsterdam, forse avrai notizie? Anche della mia ultima lettera? Arrivederci da noi quattro. Etty”.
Il 13 marzo del 1942 aveva scritto su un quaderno: “Rainer Maria Rilke, anche se tu non sei più in questo mondo, proprio per questo vorrei scriverti delle lunghe lettere. Tu sei sempre vivo. Ospitare l’altro nello spazio interiore proprio e lasciare che si dilati, conservagli un posto in noi, in cui possa maturare e dispiegare la propria potenzialità. Quand’anche non ci si veda per molti anni, vivere proprio con l’altro. Concedere che perseveri a vivere in noi e vivere con lui, per me è l’essenziale. In questo modo si continua a procedere con qualcuno, senza che gli eventi della vita travolgano… quando si ama veramente, allora bisogna essere capaci di soffrire. In altro caso l’amore non sarebbe autentico”.


Etty, prendo a prestito le tue parole. Le faccio mie. E le rivolgo a te.
Etty, anche se tu non sei più in questo mondo, proprio per questo vorrei scriverti delle lunghe lettere. Tu sei sempre viva. Ti ospito nel mio spazio interiore e conservo in me un posto per te, un posto molto importante. Ho imparato a vivere con te. In questo modo procedo con te, Etty.
Ci sono rimasti, Etty, le tue lettere e il tuo diario. Me ne nutro quotidianamente. Rivivo con te le tue sensazioni, le tue emozioni, le tue intuizioni. Uso le tue espressioni, quelle tipiche di te, come: “Tutto va sempre avanti, e perché no!”, “E ho pensato: Anche questo va bene”, “E intanto la mia vita continua”, “E si deve pur continuare ad andare avanti, a essere produttivi”, “E ora al lavoro”, “Ecco, ora posso dormire in pace”, “Domattina mi alzerò presto e me ne starò un pochino a questa scrivania”, “Sì, ce la caveremo”, “Sono così riconoscente”, “Questa vasta giornata è tutta mia: scivolerò in essa molto dolcemente, senza nervosismo e senza fretta”. Tra le tue frasi tipiche che preferisco, questa la ripeto ogni sera prima di dormire: “Domani è una nuova giornata, da vivere in pienezza”.
Alcune delle tue frasi, Etty, le conservo in un quaderno mio, come facevi tu con le frasi che amavi di Rilke, di Jung, di Dostoevskj, di Agostino, di Puškin, degli Evangelisti. Coltivo le stesse buone cose che tu coltivavi, perché le amo anche io e perché fanno bene anche a me. Sento mie le tue parole: “La musica mi tocca sempre molto se mi capita di ascoltarla. La mia attenzione andava sempre alla letteratura e al teatro, cioè ai campi in cui io posso continuare a pensare: ed ecco che ora, in questa fase della mia vita, la musica comincia a far valere i suoi diritti, e io sono di nuovo in grado di abbandonarmi a qualcosa e di dimenticare me stessa. Sento soprattutto il desiderio dei classici puri e sereni, non di questi tormentati moderni”.
Ti capisco perfettamente, Etty, quando scrivi: “Questa mattina mi sono proprio guadagnata questa gioia interiore, ho dovuto lottare contro l’irrequietezza del mio cuore. Mi sono lavata con acqua gelida dalla testa ai piedi, e sono rimasta sdraiata sul pavimento del bagno fintanto che non mi sono sentita completamente calma”.
Anche io, come te, ho un quaderno mio. So cosa vuoi dire quando scrivi: “Devo badare a tenermi in contatto con questo quaderno, vale a dire con me stessa: altrimenti potrebbe andar male, potrei smarrirmi a ogni momento”. Mi piace da matti questa tua frase: “La concentrazione interiore costruisce alti muri fra cui ritrovo me stessa e la mia unità, lontana da tutte le distrazioni”. Il tuo desiderio io lo sto realizzando per me: “Un giorno scriverò. Le lunghe notti che passerò seduta a scrivere saranno le mie notti migliori. E allora verrà fuori tutto quel che accumulo dentro, scorrerà pian piano come una corrente senza fine”. Lo hai scritto tu, Etty: “Spesso, quando torno a casa alla sera, trovo che ho vissuto delle esperienze straordinarie durante il giorno, e allora vorrei subito scriverci su qualcosa di immortale, addirittura”.
Ho imparato e adotto la tua filosofia, Etty: “E sii pure triste, semplicemente e sinceramente triste, ma non costruirci sopra dei drammi”; “Devo fare buon uso di tutto il tempo che ho a disposizione e che non è consumato dalle preoccupazioni quotidiane, devo sfruttarlo minuto per minuto”. Sai, l’apostolo Paolo – che tu pure amavi – ha usato quasi le tue parole nel consigliare: “Usate bene il tempo che avete”. Sì, cerco io pure di fare come dici: “Ripeto ogni giorno: per oggi sei a posto, oggi non hai il diritto di perdere neanche un atomo della tua energia in piccole preoccupazioni materiali. Usa e impiega bene ogni minuto di questa giornata, e rendila fruttuosa”. Sono ancora parole tue quelle che assumo a mia filosofia di vita: “Dobbiamo cominciare a prendere sul serio il nostro lato serio, il resto verrà allora da sé: e ‘lavorare a se stessi’ non è proprio una forma di individualismo”. In questo anno del Signore 2008 ripeto con te: “Sono una persona felice e lodo questa vita, la lodo proprio, nell’anno del Signore 1942, l’ennesimo anno di guerra. Non riesco a trovare assurda la vita”; “Dal mio cuore si innalza sempre una voce – non ci posso fare niente, è così, è di una forza elementare -, e questa voce dice: La vita è una cosa splendida e grande”; “Ho una fiducia così grande: non nel senso che tutto andrà sempre bene nella mia esistenza, ma nel senso che anche quando le cose mi andranno male, io continuerò ad accettare questa vita come una cosa buona”. Ecco il segreto, come hai detto così bene: “Fede in Dio e capacità di vivere interiormente”.
Etty, carissima Etty, condivido con te la fede. Mi commuovono ogni volta le tue parole profondamente spirituali che può intendere solo chi ha fede vera: “Una volta che si comincia a camminare con Dio, si continua semplicemente a camminare, e la vita diventa un’unica, lunga passeggiata”, “M’innalzo intorno la preghiera come un muro oscuro che offra riparo, mi ritiro nella preghiera come nella cella di un convento, ne esco fuori più ‘raccolta’, concentrata e forte. Questo ritirarmi nella chiusa cella della preghiera diventa per me una realtà sempre più grande”, “Potrei immaginarmi un tempo in cui starò inginocchiata per giorni e giorni – sin quando non sentirò di avere intorno questi muri che mi impediranno di sfasciarmi, perdermi e rovinarmi”, “Mio Dio, stammi vicino e dammi la forza, perché la battaglia si fa dura”, “Dio non è responsabile verso di noi, siamo noi ad esserlo verso di lui”, “Io guardo il tuo mondo in faccia, Dio, e non sfuggo alla realtà per rifugiarmi nei sogni – voglio dire che anche accanto alla realtà più atroce c’è posto per i bei sogni -, e continuo a lodare la tua creazione, malgrado tutto!”, “Trovo bella la vita, e mi sento libera. I cieli si stendono dentro di me come sopra di me. Credo in Dio”, “Ogni volta so ritrovare me stessa in una preghiera – e pregare mi sarà sempre possibile, anche nello spazio più ristretto”, “Ti prometto una cosa, Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò di non appesantire l’oggi con i pesi delle mie preoccupazioni per il domani. Ogni giorno ha già la sua parte”, “Comincio a sentimi un po’ più tranquilla, mio Dio, dopo questa conversazione con te. Discorrerò con te molto spesso, d’ora innanzi, e in questo modo ti impedirò di abbandonarmi”.
Mi identifico così tanto con te, Etty, che ogni domenica mattina piovosa (proprio come stamani) – ogni domenica mattina in cui piove; proprio in tutte, ti assicuro – rileggo quello che hai scritto una domenica mattina in cui da te pioveva, e leggendolo mi salgono agli occhi lacrime di commozione: “Vedi come ti tratto bene. Non ti porto soltanto le mie lacrime e le mie paure, ma ti porto persino, in questa domenica mattina grigia e tempestosa, un gelsomino profumato. Ti porterò tutti i fiori che incontro sul mio cammino, e sono veramente tanti. Voglio che tu stia bene con me. E, tanto per fare un esempio: se io mi trovassi rinchiusa in una cella stretta e vedessi passare una nuvola davanti alla piccola inferriata, allora ti poterei quella nuvola, mio Dio, sempre che ne abbia ancora la forza”.
Etty, carissima Etty, mi colma di commozione questa tua preghiera: “Mio Dio, prendimi per mano, ti seguirò da brava, non farò troppa resistenza. Non mi sottrarrò a nessuna delle cose che mi verranno addosso in questa vita, cercherò di accettare tutto e nel modo migliore. Ma concedimi di tanto in tanto un breve momento di pace. Non penserò più, nella mia ingenuità, che un simile momento debba durare in eterno, saprò anche accettare l’irrequietezza e la lotta. Il calore e la sicurezza mi piacciono, ma non mi ribellerò se mi toccherà stare al freddo, purché tu mi tenga per mano”.
Ho imparato a vivere con te. In questo modo procedo con te, Etty. Mi nutro dei tuoi scritti, Etty. Scandisco perfino il mio tempo con il tuo. Lo sai? Ho dei momenti preziosi che amo chiamare commemorativi.
Sorridi pure, ma io ogni 25 febbraio - precisamente alle 7.30 – faccio colazione con te, apparecchiando con cacao, pane, burro e miele; e una Bibbia accanto. Ti ricordi? È nel tuo diario: “Sono le sette e mezzo di mattina. …ho bevuto un bicchiere di vero cacao e mangiata una fetta di pane imburrato con miele, il tutto con quel che si dice ‘abbandono’. Ho aperto a casaccio la Bibbia ma stamani non dava risposta. Non importa molto; del resto, non c’erano vere domande da fare, c’è solo una gran fiducia e riconoscenza che la vita sia tanto bella”.
Ogni 22 luglio sera è la mia sera delle rose dopo una passeggiata, perché tu facesti così: “Dopo quella lunga camminata sono ancora andata a cercare un carretto che vendesse fiori e così sono tornata a casa con quel gran mazzo di rose”.
E ogni 31 dicembre, mentre i sempliciotti si apprestano alla solita baldoria senza senso, io sto a casa e preparo la mia semplice cena, che fu la tua: alle 20.30 metto su l’acqua per il tè. Tre pigne sono già pronte sulla tavola (non sono della brughiera di Laren, come le tue; le mie le ho raccolte tempo fa ad Olimpia, in Grecia, pensando a te). E non possono mai mancare tulipani gialli e rossi. Per me è un rito. Compio i tuoi gesti: “Ora sono quasi le otto e mezzo di sera… E se dovessi spiegare in una parola perché quest’anno è stato così buono, allora dovrei dire: per la mia grande presa di coscienza. Il che significa anche poter disporre delle mie forze più profonde. Ora mi capita di dovermi inginocchiare di colpo davanti al mio letto, persino in una fredda notte d’inverno. Ascoltarsi dentro. Non lasciarsi più guidare da quello che si avvicina da fuori, ma da quello che s’innalza dentro. È solo un inizio, me ne rendo conto. Ma non è più un inizio vacillante, ha già delle basi. Ora sono le otto e mezzo… tulipani gialli e rossi, ed ecco che spunta fuori una pasticca di cioccolato; ci sono anche tre spighe che vengono dalla brughiera di Laren. Mi sento così ‘normale’ e così bene – senza quei pensieri terribilmente profondi e tormentosi, e quei sentimenti pesanti -, proprio normalissima, però piena di vita e molto profonda, una profondità che sento pure come ‘normale’. Devo ancora ricordare l’insalata di salmone, che è pronta per stasera. E ora metto su l’acqua per il the”.
Ho imparato a vivere con te e in questo modo procedo con te, Etty. Tu scrivesti: “La strada principale della mia vita è tracciata per un lungo tratto davanti a me e arriva già in un altro mondo”. Anche la mia è tracciata. Come te, ogni tanto penso: “Mio Dio, che progetti hai in serbo per me?”. Intanto procedo, e tu mi sei accanto. Anche la mia traccia “arriva già in un altro mondo”. Non so come e dove sia. Ma ho la speranza – che si fa certezza – che tu ci sarai. Ed io sarò con te.

domenica 8 giugno 2008

Dovevo saperlo


In cima alla collina, dietro la chiesetta diroccata:
era il mio rifugio a cielo aperto.
Mai nessuno, i suoni lievi della natura
in tutto quel silenzio di pace.
Una vecchia panchina, ormai solo mia.
L’aria leggera, il sole ed io.
E - un mattino - lui.
Una paura senza ragione che mi prende:
il mio corpo già sapeva, prima di me.
Mi guardava, lo sguardo ironico e sicuro
degli uomini che san di esser belli.
Dovevo capirlo.
Con finta noncuranza me ne andai,
un’occhiata di straforo al suo didietro.
La mattina dopo,
nel mio rifugio a cielo aperto,
il silenzio non era già più di pace.
Mi giungevan diversi anche i suoni della natura:
girandomi, credevo di vederlo.
Poi, eccolo.
Dovevo capirlo.
Sorridente, ancor ironico.
Un saluto, uno scambio di banalità sul luogo.
E le sue parole: Vengo qui solo per incontrare te.
Dovevo capire.
E invece arrossivo: il viso mi scottava, il seno palpitava.
Seduto accanto, sulla panchina ormai non più solo mia.
Mi parlava piano.
Dovevo capire.
Quel pomeriggio, nella mia mente,
l’istantanea del suo corpo:
i suoi occhi, le sue mani, la sua pelle.
Di nuovo la mattina.
Senza più pace in quel silenzio a cielo aperto.
Dovevo capirlo. E scappare.
Mi sfiora il viso, con un dito leggero.
Lotto per perdere, e domando che vuole.
E lui dice che me,
vuole me e il mio profumo.
L’emozione è fortissima
e fortissimo il desiderio di buttarmi addosso a lui
e di sentirlo addosso a me.
Non m’era successo mai.
La sua bocca era già sulle mie labbra.
Il primo bacio fu quasi un morso
che mi trafisse, meraviglioso, l’anima.
Poi furono lenti, i baci, e lunghi,
nella crescente esasperazione
del groviglio delle sue mani.
Fu la passione senza fiato.

Durò quel che durò.
Poi accadde.
E la mia gioia nel dirlo a lui
divenne pianto sconsolato,
lui di ghiaccio,
quando mi disse ch’ero stata stupida.
Era cattivo.
Voleva mi liberassi della mia creatura.
Dovevo, dovevo capirlo sin da prima, sin da allora.

Compie un anno, la mia bimba.
Lui, sparito, non volle mai neppure vederla.
Sono stanca.
Sono tanto tanto stanca.
Solo con le sue braccine attaccate al collo
ritrovo un po’ di forza.
Solo con le sue braccine
- attaccate al collo –
ritrovo un po’ della mia forza,
anche nel pianto.

Tu, mio fiore


Raccolgo un fiore
da questo giardino
dove spesso ci dicevamo il nostro amore.
Lo adagio piano su una panchina
- quella panchina.
E mi siedo accanto a te
che non ci sei.
Qui attorno
- nella calma profumata che è giunta
con i colori del tramonto -
il ricordo di te pervade ogni cosa.
E mi penetra e mi fa male.

E piango
lacrime che non sanno salire agli occhi,
per quel fiore che ho reciso.

Tu sei la mia amica


La nostra è una storia di anime.
Ha il suggello del vincolo che ci lega
e che resiste nel tempo – nella gioia e nel dolore.
E’ il sentimento che perdura
quando altri - per altri - si dissolvono.
E’ il sentimento vero che regge distacchi e lontananze.
Tu sei la mia amica per sempre.

La nostra è l’emozione viva
del reciproco possederci.
E’ l’emozione che si rinnova
col suo stesso bisogno.
E’ l’emozione nutrita dai segreti più segreti,
il cui accesso è precluso ad altri.
E’ l’emozione in cui tutto ci giochiamo:
sentimenti e valori e desideri.
Tu, tu sei la mia amica del cuore.

Sei tu la testimone della mia vita. Io della tua.
Ci siamo scelti. Rimaniamo legati,
accogliendo trasformazioni e cambiamenti.
Noi, sempre lì a raccontarci:
intimità profonda che vive
di confidenze e confessioni,
finanche del celato bisogno di ricevere conferme.
E’ il confidarci e il fidarci e l’affidarci,
senza mai giudicarci.
E’ l’accettazione ad oltranza
nella lealtà, sempre disponibile,
in cui disattenzioni e sgarbi non son cosa nostra.
Tu, proprio tu, sei la mia amica per la pelle.

Mentre accolgo la tua ombra,
tu accogli la mia:
ombre, le nostre, in cui ci riveliamo veri.
Ombre che abbracciamo, per tenerci stretti.
Tu, sei Tu, la mia Amica.

venerdì 30 maggio 2008

Sulla soglia


Immersa da tempo nella mia situazione sbagliata,
mi trovo oggi sulla soglia
del pensare ad una vita migliore.
E’ così sottile il confine:
una soglia che potrei varcare, libera.
Non ha barriere il confine, eppure è così confine.

Io al di qua della soglia, soffrendo
e desiderando il meglio che so esserci al di là.
E’ sulla soglia che comprendo – per me stessa –
di meritar di più.
Varcarla sarebbe diventar libera:
libera da lui non libero e bugiardo, che mi trascura,
da lui egoista che sfacciatamente inganna,
da lui che subisco per paura di restar sola.

C’è una gran dignità
nel non abbandonarsi ad emozioni sbagliate.
C’è dignità vera
nel saper guardare e nel saper vedere.
C’è dignità – la mia, tutta –
nel saper varcare la soglia.

Una via c'è


Sembrava un viale alberato di sogni perenni,
ben soleggiato d’amore, ventilato da sensazioni vere,
recante all’Albero della Vita,
nell’Eden segreto del cuore.

E’ buio e stretto e cieco, ora, questo vicolo chiuso.
Non v’è uscita, non v’è speranza.
Ogni cosa qui è scoramento e sconfitta.
Sentirsi perduti, con un solo pensiero, sempre quello: perché.

Macerarsi nel perché non indica però la via:
rende il vicolo più buio e più chiuso.
I perché son cosa passata, avvenuta, compiuta:
solo il vicolo è vero, il resto illusione.

Va guardato, questo luogo scuro: è tutto quel che ora rimane.
La sofferenza purifica, se si ha il coraggio dell’accoglienza.
S’apre allora, d’un tratto, la via immensa della pace.
Ed è già quasi serenità, prima di gioie nuove. E inaspettate.

Un dono


Non ti ho neppure detto che ti amo né lo hai detto.
Noi che siamo stati, per caso, amici e complici.
Io un riparo durante una tempesta,
tu un vento bagnato di pioggia.
Il caso, a volte, fa doni inaspettati.

E ora che le tue tempeste son finite,
rimani qui, nel nuovo giorno.
Eri giunta di sera, quasi persa, senza più una meta.
Ti accolsi nel silenzio caldo e vivo e rassicurante di un camino.
Asciugate le lacrime amare di pioggia,
lavati gli abiti sporchi di un percorso sbagliato,
apparisti nuda senza vergogna.
La notte fu nostra.

E non ti ho neppure detto che ti amo. Né lo hai detto.
Ha forse tante forme l’amore?
E a cosa assomiglia questa che non dice parole
e non palpita delle emozioni del cuore?
Eppur rimani qui, nel nuovo giorno.
Forse poi riprenderai la via, la tua via.
Non sappiamo il domani, né lo sai.
Intanto è ancora caldo il camino.
E conserva il suo tepore in quest’alba che per ora è nostra.

domenica 25 maggio 2008

Un anno fa


Compiuti i miei sedici anni, ragazzina più non ero.
Son diciassette, oggi. E non son donna ancora.
Un anno in più. Di confusione, di malessere.

Amicizie, nessuna,
se i miei compagni guardano solo all’utile loro.
L’unico rapporto vero, con la mia compagna di banco.

Un’amica l’avevo e credevo fosse vera.
Sto ancor male per averla persa.
E lei neppure sa quanto ho sofferto.
Un’amicizia vera, sì, la vorrei:
son vuote le mie mani,
il cuore ancor pieno di speranze.

Un anno in più. Di delusioni.
Mio padre, sempre più occupato altrove.
Mia madre che guarda fisso davanti a sé,
se le parlo, e io capisco che neppure mi sente.
Senza mia sorella che mi ascolta
davvero non saprei che fare.

Il passato lo rimpiango:
io così sicura e determinata.
Sapevo quel che volevo, ora un po’ meno.
Sempre più confusa, e le domande son tante.
Sentirsi sconvolte: è questo il crescere?

Una certezza però la ho:
contar soltanto su me stessa.
Per far fronte ad ogni situazione,
per ottener quel che voglio,
per riuscirci.
E il mio futuro
- io lo so –
sarà stupendo.

Viaggio senza bagaglio


Ti sorrido, amica mia.
Ma il mio sorriso è accennato, colmo di comprensione:
li vedi i miei occhi affettuosi che
guardandoti – buoni, senza imbarazzarti –
ti parlano in silenzio?
Ti dicono quanto so di te.

Perfetta e brillante sempre, tu.
Eppure io so delle fatiche e degli sforzi
che mai racconteresti.
So delle rabbie che taci.
So perfino delle ire, delle invidie e delle gelosie
che nascondi, ma che a volte son parte di te.

Vieni via, amica mia, donna vera sotto mentite spoglie.
Abbandona paure e incertezze:
ti porto in un viaggio nuovo.
Lascia lì la tua valigia delle cose,
con gli abiti dei sentimenti amari,
con le scarpe dei doveri faticosi,
con i gioielli delle emozioni avvilite,
con la biancheria dei desideri frustrati,
con il trucco delle abitudini stanche.
Porta con te solo la tua voglia di vita vera.

Eccoci giunti.
Non ti avevo detto che è un viaggio nuovo?
Quando arrivi alla meta, inizia il viaggio.
Férmati: il viaggio è nuovo.
Tu spettatrice di te stessa (ma dove eri finita, amica mia?).
Qui puoi guardarti piangere e ridere,
provar rabbia e sperare, volere e rifiutare.
Sei tu.
Accogliti, senza giudizi.
E non rifuggire più.
Scoprirai che la tua anima è unica,
unica perfino la tua maniera d’esser bella.
Unica. Come te.

Voglio sorprenderti





Voglio sorprenderti.
Perché tu mi scopra, ogni volta.
Perché tu m’attenda, ogni volta,
con l’ansia del primo incontro.

Voglio sorprenderti.
Perché tu ti stupisca, sempre.
Perché tu sia colta di sorpresa, sempre,
con la meraviglia nei tuoi occhi.

E voglio sorprenderti anche nel sonno.
Perché tu frema del tuo fremito.
Perché tu ti riassopisca, poi, serena.
Per sorprenderti di nuovo, nei tuoi sogni.

Tocco femminile





Mi piaci perché sei vera.

Libera, non la perdi la tua femminilità
tra il bisogno d’affermarti e l’eccessiva grinta.

Seduttiva, quando sai quello che vuoi
ti spendi con tutto il cuore
in delicatezze ed attenzioni senza fretta.
Non ostenti un mantello d’inesistente sicurezza
tessuto con trame di moine
e ordito con piccole astuzie
per farti notare e accettare,
per sopravvivere.
E’ un moto dell’animo, la tua seduzione:
un gesto spontaneo con cui ti porgi.
Seduci così, col cuore.

Intraprendente, non rinunci – tu determinata –
al gusto d’esser femminile:
accogliente, affettuosa, comprensiva.

Sai fidarti, tu, della tua libertà.
Irresistibile il tocco della tua femminilità:
mi piaci perché sei vera.

venerdì 2 maggio 2008

Stella cadente


Eccola: la inseguo con lo sguardo.
E’ la mia stella cadente nel notturno agostano.
E il desiderio lo esprimo,
prima ch’essa svanisca lontano.

Vorrei, vorrei.
L’armonia con me stessa e con l’universo intero,
con la terra e il mare e il cielo.
Armonia che somigli
alla gioia sensuale di star sdraiata sulla sabbia al sole,
nel fruscio del vento,
col profumo di salsedine.
Per emozionarmi e per sentirmi viva.
Per sognare.

Occhi all’insù: guardar le stelle.
L’ho colta al volo,
la mia stella cadente.
E’ svanita di già, ma con sé reca il mio desiderio.
Lassù, tra le stelle.
E io, qui, ne avverto l’eco.

Specchio


Ciò che vedo nei tuoi occhi
è quello ch’io sento.
E ti vedo.

Ciò che senti in te
è quello che vedi nei miei occhi.
E mi senti.

Ci guardiamo.
E ci sentiamo.
E specchio sono i nostri occhi.

Spregiudicata


Lo conobbi quando ormai – carica di anni, tanti –
mi ritenevo giunta alla saggezza nella mia vita già trascorsa.
Lui così estroverso e simpatico e bello e allegro.
Lui così giovane. Lui ragazzo.

Ci misi mesi e mesi prima di far l’amore con lui.
Immaginavo le sue mani su di me e
- toccandomi da sola braccia e glutei –
rabbrividivo e pensavo: non posso.
Io intoccabile.
Spogliarmi fu infine più eroico che erotico.
La passione fu più forte della paura.

Fui felice oltre ogni dire.
Non temevo la concorrenza di avvenenti ventenni.
Non badavo allo scherno degli sguardi ironici di chi scuoteva il capo.
Non temevo neppure d’invecchiar di più e d’essere lasciata.
Era la mia stessa maturità il mio fascino esclusivo
che giocavo con disinvoltura
cercando la mia bellezza negli occhi di lui,
senza chiedergli conferme.
Lui mi amava.

Fui io a lasciarlo.
Perché lo amavo.
Perché non avrei potuto dargli un figlio.
La vita scorre e noi passiamo.
Uno sprazzo di felicità vera a volte accade, anche tardivamente.
Ma alla Natura non la si fa.

Sorelle di sandali


Quella tutta sorrisi e mossettine: per me era la trampoliera.
Io, ampie gonne e scarpe basse, stavo comoda così: donna più vera.
Fu un caso o beffa del destino: io da lei, una sera.

La tipa era gentile e sorridente, vistosa e canticchiante.
La guardo imbambolata, lei tutta raggiante.
Trampoli per tacco, anche in casa - io penso . E’ tutta sculettante.

Tende, tendine, ninnoli e fiorellini: casa sua è in stile barocco.
Tutto arzigogolato, soffice il tappeto: il rosa antico dona un certo tocco.
Guardo attorno, stupita di non trovar un gatto persiano con tanto di fiocco.

Bellissimi, i suoi sandali: semplici, rosso il raso.
Tacchi alti e una fascetta: li provo, giuro, o non rincaso.
L’occhio mi cade lì, e non a caso.

Quella mattina, per controllar le gambe, la gonna m’ero alzata.
Immaginando i tacchi, sulle punte m’ero sollevata.
Strana idea la mia, ma io sempre più tentata.

Poi, durante il giorno, lo confesso, alla tipa io pensavo.
E in certi momenti, credo, perfino sculettavo.
La dico tutta: quell’abitino ormai dimenticato, sì, fuori tiravo.

Se n’accorge, la trampoliera, che i suoi sandali sto a guardare.
Allor le faccio: ma come fai a camminare?
Sorride e se li slaccia: vuoi provare?

Stupita, mi guardo allo specchio: son io davvero che si rinnova?
Gambe slanciate, tutto perfetto: basta sol che un po’ mi muova.
Anche la gonna par aver una sua bellezza tutta nuova.

Mi sento femmina davvero, quasi disinvolta.
A camminar imparerò, una buona volta.
E’ diventata trampoliera amica, quella tipa che verso di me si volta.

Comoda e dimessa, ero la donna del mio stesso atteggiamento.
Mutata la postura, mutata io, in un momento.
E’ un modo nuovo di pensare e di pensarmi: è questo il cambiamento.

Sorda


Lo so il tuo mondo, solo tuo.

Il nostro, carico di parole
di cui la mente è piena senza requie.
L’emozione è detta,
il ricordo scritto,
la vita in sillabe.

Il tuo mondo è di silenzio
e non odi mai la voce interiore,
la tua, che non hai.
Non ha parole
il libro della tua vita:
son pagine non scritte d’alfabeto,
in cui hai impresso fraseggianti emozioni
e punteggiature di sensazioni
e parentesi d’odori
e accenti tonici di dolori
e caratteri di tatto
e illustrazioni visive di gesti
nella sintassi senza suoni.

Lo so il tuo mondo.
Ti guardo mentre mi guardi.
Ci vediamo dentro.
E dentro sentiamo insieme.

Solo


Son così vasti, dentro di me, certi momenti. E così intensi.
Ciascun istante, prezioso, pare schiudere
il significato segreto
che il tempo - fermo ed eterno -
ha racchiuso in essi:
l’eternità, celata sotto le mentite spoglie della temporalità.

Così vasto, e intenso, il percepire appieno
lo scorrere eterno del vivere,
in quei momenti d’intuizione.
L’animo si colma fino a traboccarne
per lo stupore che sorprende:
la gloria d’un tramonto d’ambra,
la magia d’una notte incantevole di luna,
la meraviglia di un’aurora che divampa silenziosa.

Ma chi sarà spettatrice con me del sublime?
Nessuna mi è accanto
per palpitare con me
di tanta verità e di tanto amore.

domenica 27 aprile 2008

Solitudine


Ci può esser sgomento e dolore
nel sentirsi soli ed isolati,
tagliati fuori dal mondo intero.
Vulnerabili, manca qualcuno
che ascolti, che condivida pensieri reconditi
e sentimenti profondi, che forse rassicuri:
qualcuno che sia spettatore della nostra vita
e sensibile a ciò che proviamo.

Eppure si può star soli senza sentirsi soli.
Raccogliersi in se stessi
e acquisire pace interiore.

Ma quale solitudine è più dolorosa e desolante
dell’esser abbandonati dall’Iddio vivente?

Sempre io


E’ fulminante l’istante breve
in cui un dettaglio
rivela inesorabile che s’è iniziata la china della vita.
Non preannuncia il momento d’una nuova fase:
ti mette di fronte ad un fatto compiuto.

Dapprima ho difeso la mia reputazione di bella donna
con tacchi alti e il trucco sempre a posto.
Ma non ho fermato il tempo.

Ogni giorno mi stupisce ancora l’esser così diversa:
dentro son la stessa con passioni e voglie,
fuori son stanca;
l’anima non coincide col corpo.
A volte mi viene un gesto
e vi riconosco il mio passato di ragazza,
ormai passato.

Poi l’amore, di nuovo.
Sorprendentemente ancora.
E imparo che sulla mia pelle
son scritti i segni della mia vita.
Che vanno glorificati.

Di nuovo l’amore.
E nell’intensità dell’incontro non devo, ad un tratto,
dimostrar più nulla.
Con lui poi ho riso.
E siam usciti a passeggiare insieme.
Io
- incredibilmente –
senza trucco.

Sei come il mare


Che hai, triste amica mia?
Il risveglio del mattino pare un rigirarsi ancora
tra i recenti sogni di un letto che non dà riposo.
Un’alba di malumore, che non rischiara,
trattiene il grigiore dei tuoi pensieri.
Lo specchio, poi, riflette quel che celi:
un non piacerti che l’acqua non lava.
E ti maceri, quasi esausta, incapace di correggere
nervose sensazioni che ritornano
come ricci ribelli che la spazzola non doma.

Lascia tutto lì, amica mia – il mondo delle cose.
Ti porto per magia altrove: andremo per mari.
Guardalo, questo mare:
riflette sole e luna, cielo e nuvole:
or è calmo, or è burrascoso;
a volte si fa oceano, altre distesa;
sa essere gelido, si fa caldo;
notturno, solare, invernale;
s’imbroncia e poi si calma.
Ha tanti e tanti nomi,
nomi stranieri che le genti gli danno.
Guardalo: non è sempre bello?
E’ lo stesso mare:
sempre lo stesso, eppur sempre diverso.

Il tuo animo è come il mare, amica mia.
Sempre te stessa, sei sempre diversa.
Tu sei unica.
In ogni istante, unica e diversa.
Sei tu.
Non c’è prima, non c’è dopo:
c’è l’attimo – irripetibile – del durante.

Seduttiva


Mi piace da morire.
Son seduttiva.
Uomini galanti che si girino a guardarmi:
io lo adoro.
Sempre attenta a suscitar reazioni,
io in continua allerta.
Non ch’io sia bellissima,
le mie amiche sì che son stupende,
fantastico hanno il corpo,
ma son io, son io, che ho successo.
Che dire? Mi piace da morire.
E’ mio sentirmi donna, il mio sentirmi bella.
E’ il mio sentirmi forte.
Gesti e sguardi, accavallar le gambe,
lanciar occhiate:
gioco di seduzione in cui mi sento ammirata.
Come me, femmina è la vanità.
Ma poi, trovata la conferma,
finito è il gioco.
E altolà, che più in là non si va. Non mi va.

Risentimento


Lo amavo così tanto.
Perfino il suo muro di silenzio, tanto intrigante,
credevo celasse chissà quale mistero e profondità.

Dove mai è finita la mia vita? Ed io?
Dapprima fu la rabbia nel vederlo impassibile.
Io sopraffatta e coinvolta dalle emozioni,
lui rinchiuso nel suo mondo di stupidi agonismi televisivi
e di giornali che erge come una barriera che lo nasconde.
Poi furono le ferite infertemi
dal suo continuo sfuggire, glissare, nicchiare.
Infine fu l’offesa e fu il risentimento.
Per la sua insensibilità e chiusura.
Per la sua mancanza d’attenzione e di rispetto.
Per il suo mugugnare quand’io
volevo parlare e confidarmi.
Per il suo spazientirsi al mio raccontar dettagli,
non comprendendo lui neppure
che era tutto lì il mio piacere di parlargli.
Da sempre incompresa, sono ormai sola.

Lo amavo così tanto.
E dietro il suo muro di silenzio – io stupida –
credevo celasse chissà quali misteri e profondità.
Dietro, invece, ha solo il vuoto.

Preghiera


Era in piedi di fronte al muro,
immobile e assorta.
La vidi per caso, senza saper chi fosse.
Un vestito a fiori, tonalità del viola,
vaporoso nelle pieghe e leggero,
le cadeva perfetto sotto il ginocchio.
Sandali ai piedi, una borsa a tracolla.
E un cappello di paglia, elegante,
sui capelli biondi raccolti a treccia.

Era in piedi di fronte al muro. Di una chiesa.
Immobile e assorta.
Lei solitaria sul sagrato al sole.
Nel silenzio pomeridiano,
il suo silenzio concentrato e intenso.

Or allunga una mano
a toccare il muro. Di quella chiesa.
Si volta e s’allontana a passo calmo.

Io rimango qui.
Guardo quel muro che conserva ancora il suo tocco.
E odo l’eco muta del silenzio di lei.
Rimango qui.
E son più ricco dentro.

Planetario


Nella soave attesa delle prime stelle
l’aria ancor tiepida diventa dolce, qui attorno.
E’ una sera serena e carezzevole.
La tua vicinanza che mi avvolge
mi dona un benessere
che sa di cielo ambrato.

Carezze di vento sono le tue mani tra le mie.
Bagliori che accendono l’anima,
le pagliuzze dorate nei tuoi occhi di mare;
raggi riflessi da un sole che si attarda
dietro l’orizzonte marino.
E poi, le fragranze della sera,
che accompagnano il profumo di te.

Scende la notte in questo luogo.
Nel buio ti sento più vicina,
e ci attraiamo come in un bosco notturno,
quasi a nasconderci nello stesso respiro.

Appaiono lo stelle
che svelano l’infinito.
Ed è l’immensità del mio amore per te
che io avverto
e che mi colma.

Per sedurre stasera


So esser brillante e leggera: mi porrò con un sorriso.
Madre natura m’ha resa solare e femminile.
Ma nulla lascio al caso: armi ne ho.
Son sottile e alto è il mio didietro.
Elegante canotta, sandali e fascianti pantaloni.
Poca la scollatura. E nulla di vistoso.

Tutto ma tutto, invece, io preferisco usare:
corpo e voce, viso e sguardo, mani e capelli.
Adoro farmi guardare, sedurre e conquistare.
Provocante sarà il mio vestire:
alti i tacchi, per slanciare;
bassa la vita, per l’ombelico mostrare.
I capelli, non so ancora:
ricci, lisci o a cascata?
Decider dovrò. Ma di certo li accarezzerò e li sfiorerò:
ancor più allusiva così sarò.

Macché, macché. Travestirmi, io, no no.
Esser me stessa senza esagerare.
Accessori certo sì. E trucco leggero per gli occhi miei che san guardare.
Non seduco forse io con la mente e con lo sguardo?
Saper parlare, saper ridere e ridacchiare.
E saper ascoltare: lor signori impazziscono per questo,
nel loro grande ego smisurato e vasto.
Stasera incrocerò uno sguardo.
E in quello sguardo saprò dir tutto.

Sull’erotico, io, e sul femminile punterò.
Per gli occhi trucco perfetto, tacchi alti e poi
ben scollata la maglietta.
Tutto bianco o tutto nero: è di rigore.
Penso sia davvero il mio modo di muovermi a sedurre:
mai passo inosservata!

Trasparenze e scollature, mai mai.
Mai e mai minigonne e vite basse.
Così eccessiva, sarei a disagio.
Mica son cacciatrice, io. Seduco a caso.
Elegante è la mia sensualità:
gonna al ginocchio e
scarpe con tacco e cinturino
per esaltar le mie caviglie.
Così son fatta.


Gambe lunghe e belle, le mie: le scopro e l’effetto è assicurato.
Cortissima la gonna, scarpe alte a cinturino.
Ben scollata la maglietta:
fingere non so,
che sia chiaro che di seno non ne ho.
Alti i tacchi, anche se son alta io:
prendere o lasciare, adesso.
E poi ho il mio piccolo e bel tatuaggio in mezzo al seno:
ha sempre avuto un gran successo!

Paure


Lo sentivo in grembo: che gioia.
E che gioia, ora: è qui tra noi.

Ma tu, tu che sei il papà,
sarai abbastanza buono e bravo d’amarlo?
D’un tratto non mi fido più tanto di te:
ti vedo distaccato e spio i tuoi tratti divenuti infantili.

Ed io? Sarò io una buona madre?
E sarò ancora attraente per te?
Sai, mi percepisco diversa.
E già provo invidia - sì, un po’ - per le altre che son magre.

Lo volevo poi davvero?
Son cosa passata, temo, le nostre serate e la nostra intimità:
inghiottite dal tempo che noi due più non avremo.

Abbracciami. Tienimi stretta.
E dimmi che è anche tua
questa gioia che è tra noi.

Mare e cielo


Vivo in questo mare,
tra i flutti mai fermi della vita.

So avvertire il terrore della notte nera
sugli abissi oscuri del non sapere come.

A volte guardo una stella che appare più lontana,
da uno scoglio battuto e battuto da onde di avversità.

Conosco l’amaro sapore del sale,
dell’acqua marina che non sa spegnere la sete.

Si susseguono aurore di speranza
e tristi tramonti di mare.

Il mio animo si perde nella vastità oceanica,
e mi lascia alla deriva.

Ma il mio cielo segreto
è calmo e sereno e sicuro
come le profondità nel fondo del mare.

Paura d'amare


Ti fai ombra: le fattezze ancora son tue, tuo il sorriso che ti cela.
Il sogno di una sera fu incantevole,
forte la tentazione di trattenerlo e di viverlo a lungo.
Il risveglio reca però la realtà, la tua di sempre,
ma la confondi con gli incubi delle notti passate in segreto.
Che realtà è mai quella abitata dai fantasmi del passato?
Non sai coglierla la realtà vera e bella. E nuova.
Non esistono i fantasmi: sono vivi se li tieni in vita.
Si può forse trattenere un sogno bello negando se stessi?
Facile la via di farti donna celando l’altra donna,
difficile la via d’esser donna senza l’altra donna.
Impossibile la via di diventar donna, se temi l’altra donna:
se non cogli il giorno nuovo e diverso e unico,
se lo confondi con altri vecchi e uguali e soliti.
Intanto il giorno passa, eppur è ancor giorno.
Sa di pianto questo giorno: sarà poi amaro o di gioia, questo pianto.
Se questo oggi tramonta, il domani sarà di nuovo ieri.

Ti fai ombra: le fattezze ancora tue, il sorriso ormai spento.
Batte forte il tuo cuore sulla soglia
del giorno ancora giorno e che declina.
Sarà ancora notte senza stelle e tornerai ombra che vaga tra le ombre?
O saprai fermare il sole e diventar donna nella luce?

Batte forte il tuo cuore sulla soglia.
E’ la paura d’amare che è paura di non poter amare
per paura di non essere amata
per la paura vera di non poter essere amata.
Ma io già ti amo: ti amo di già, anima mia.
Amo te non più ombra,
amo te col tuo sorriso nuovo e libero,
amo te che varchi la soglia e ti fai donna
liberata dai fantasmi che più non trattieni.
Per amarti finalmente come sei,
per amarti completamente.
Perché tu sia tu, e per poter essere anch’io.
Perché, senza questo amore vero,
tu ed io
alla fine non saremo stati.

sabato 29 marzo 2008

Nell'ombra


Prima ci fu lui: tanti anni insieme.
Poi un altro: tanti altri anni assieme.
Infine, il rifiuto: nessuno, l’uomo della mia vita.
Ora son sola.
Buona con me è la vita,
sarebbe completa con la persona giusta.
Ora son sola, ed è difficile.
La sera rientro a casa in fretta,
ceno veloce e mi rifugio a letto.
Son sola, e ancor non so come si fa.
Una svolta la vorrei:
per sorridere ancora e star di nuovo bene.
Tornare indietro, no: sarebbe ancora il buio,
all’ombra di un uomo.
Voglio prima brillar di luce mia:
allora lo guarderò negli occhi, alla pari, il mio compagno

Onirica composizione di sensi


pensiervezzosi brillaspumeggiano luminobriosi
zampilsorgentemente trascendendomente
percorrere alivolando loscorreretrascorrere
delmomentoistante chesifairidante
diverdegiallo maturvolgente amarantorossocorallo
musicandocroma inbemollearoma
fruttorosato disinfonicogusto petalvellutato
incarezzevoltocchi dicromorintocchi
buioemergenti dacolorprofumi tattilosuadenti
disensi senzasenso
nelnonsenso deisensi chedansenso

Mentre dormi


Nei tuoi sogni, stanotte, vorrei apparire.
E lì - io inafferrabile -
vorrei tu provassi per me
quel che sento per te.

Ti starei accanto, evanescente,
e vorrei tu sentissi in te
una tenerezza infinita
che ti avvolge e ti avvolge.
Vorrei, stanotte, essere il tuo sogno.
Ed essere - sensazione notturna –
l’ombra verso cui aneli e che non c’è.

Vorrei, questa notte, che il tuo sogno
ti facesse destare per un attimo, confusa,
mentre la tua mano scorre invano
a cercarmi nel freddo accanto a te.

E – non trovandomi –
richiudessi gli occhi.
Per ritrovarmi nel sogno.

Maledetta me


Di nuovo nel baratro, maledetta me.
Di nuovo ci son cascata.
Di nuovo è tornato, lui sparito per mesi e mesi.

Nel mio letto. Straordinaria la follia dei sensi.
La mattina, poi, il risveglio:
no, non può,
no no, nessun impegno.
Sparito di nuovo. Da lei.

Io uno straccio.
Anzi, no, arrabbiata.
Anzi, no: furente.
Con me stessa.

Volevo, vorrei, forse vorrò
soltanto
una straordinaria follia dei sensi.
Nel mio letto.
Assaporare tutta, ma tutta,
quella libertà – scandalosa –
dai sentimenti e dall’amore e dalle colpe,
quella libertà – scandalosa –
che gli uomini, loro sì, ben sanno.

E invece no.
Non ci riesco, no.
Maledetta me.

Le mie vacanze


E’ deciso: viaggio in solitario.
Non più amici in coppia e amiche in caccia.
Parto da sola: io completamente libera.
Per ritrovar me stessa.
Per mettermi alla prova.
Per trovar – perché no – nuove amicizie.
Una vacanza a me dedicata.
E al mio piacere.
Una valigia per compagna.
Sarà l’evasione l’aria nuova del mio respiro.

Cenar da sola, però…
Ma sì, io disinvolta brinderò a me stessa.
Per ricominciare.

Lampada di Aladino


E’ strana davvero la mia lampada d’Aladino:
quando il genio esca non si può mai dire.
Se l’accarezzi o la sfreghi,
non ne vuol sapere,
neppure se la preghi.

E’ davvero strano l’animo mio:
l’intuizione che sorprende accade così, a volte.
Se lo curo o lo coltivo,
mi arricchisce,
e mi sento vivo.

venerdì 28 marzo 2008

La voce di lei


I miei occhi chiusi su una visione di prati.
Ho escluso lo spazio verde di campi e coloratissimo di fiori,
che vive incantevole sotto l’azzurro del cielo.
E percepisco solo un suono melodioso di ruscello.
Che mi culla.

Musicalità che si rinnova nel fraseggio,
parole musicali in chiave di violino,
note accordate dall’emotività che le ispira.
E ne percepisco la sonorità nascosta.
Che mi colma.

Voce solista che sa d’orchestra,
armonie emerse dal pentagramma del cuore,
suggestioni e sensazioni improvvisate.
Percepisco l’emozione del crescendo.
Che non mi calma.

Incantevoli corali a più voci in una sola voce,
la dolcezza struggente di un bemolle dell’anima,
pause pregnanti di note non scritte.
Ne percepisco l’intensità viva.
Che si compie.

I mie occhi chiusi sulla visione di lei.
Ho escluso tutto: solo lei presente,
che parla incantevole al mio cuore.
La percepisco. La sento unica.
E mi compie.

La casa gialla


Eccola, davanti a me, la casa gialla: splendida nel sole.
Il vento che si è levato rende tremule e argentate le foglie
degli ulivi, sulla sinistra.
Nel prato, sul davanti, la macchia blu degli iris.
Dietro, con i suoi profumi, il bosco.
Le cornici bianche, intorno alle finestre scure di noce.

Eppure non par più viva come quel giorno in cui,
sotto la pioggia, rimasi lì – incantata – a sognare
la mia vita insieme a te.
Immaginavo, allora, di veder la porta aprirsi:
tu ad accogliermi col tuo sorriso,
per abbracciarmi poi e tenermi stretta.
Tu, il mio rifugio
(lo sai, amore mio? Non ho mai avuto un rifugio, io).
L’emozione, allora, faceva battere il mio cuore di donna
e faceva tremar la mia mano desiderosa di accarezzarti.

Eccola, davanti a me, la casa gialla: splendida nel sole.
Non par più viva.
Come te, ingannatore.
Come te: il mio gigante con i piedi d’argilla.

Infine


Alla fine, nessuno può salvar nessuno.
Eppur pensavo: io lo salverò.
Lui così introverso ed egoista, io nel suo vicolo cieco.

Alla fine, la mia vita è ancora mia.
E ne accadono di cose.
Accade perfino il mio star bene.

Ho liberato il cuore.
Attimo per attimo, son di nuovo io.
Alla fine.

Indiana


A passi lenti, noi due accanto, nella sera così dolce
che già era scesa sul nostro desinare esotico e gustoso
di risa e sguardi, respirandoci piano.

A passi lenti, noi due accanto, così vicini,
attenti a non sfiorarci, nella nostra prima sera.
Passeggiare insieme, attorno ad un laghetto,
tra la gente, nelle luci serali di parco.

Riprendere i passi lenti, noi sempre così vicini,
dopo un breve sguardo alle stelle:
ma è qui tra noi lo strano cielo che ci avvolge.

Riprendere ancora i passi lenti, tra il sentore di stagno
e i lievi profumi di primavera.
Or così vicini eppur più distanti - per finta indifferenza –
dopo averti sorretto, per un momento, nel tuo passo falso.

Passi che ci conducono ora, non più lenti, ad una panchina.
Seduti accanto, col l’alibi del raccontarci per spiarci.
Così bella e calma la sera, nascoste le emozioni,
la luna chissà dove.

Qui seduti la notte è più notte, tutto il resto ormai svanisce.
E tu – d’un tratto – ti giri verso di me: e siedi all’indiana.
Presa da un nuovo brio, il tuo sorriso è diverso.

Io parlo e racconto e parlo: mi guardi e mi fissi, sorridi,
annuisci con voluta ironia per la tua finta attenzione,
divertita dal mio ormai inutile dire che tu più non ascolti.

Muta il tuo sguardo, e rivela la donna.
Muta il tuo sguardo, e più non ho scampo.
E le tue labbra son già sulle mie. E mi cerchi.
E mi trovi.

In silenzio


Vorrei partire con te. Ora.
Per pascoli alpini
alti, silenziosi e intatti.
E palpitare con te,
contemporanei del silenzio
che lassù scorre
alto e intatto.

Illudersi, per sentirsi amata


Ero giovane – oh, com’ero giovane:
ancor ragazza e divenni sposa.
Innamorata? No: la mia adolescenza fu spezzata,
nell’improvvisa attesa d’esser mamma.
Lasciati i giochi e le canzoni,
d’un tratto fu la vita dura e faticosa.

Or di lui non sopporto più nemmen lo sguardo su di me:
egoista senza misura, violento e senza cuore.
Mio figlio, ormai grande, invece l’adoro.

E c’è un uomo speciale da un po’ nella mia vita,
che mi ascolta e mi comprende.
Tanto è l’affetto e grande è la stima.
Andar via con lui – io lo so – sarebbe un sogno.
Se son rimasta è solo per pietà di lui che mai non cresce.
E ancor mi logoro negli obblighi di moglie assente,
e più non reggo menzogne e falsità.
Chiedere all’altro di fuggire insieme, ecco, dovrei.
Ma io non oso, se lui non sceglie mai.

Ho un amico, caro e prezioso, che scuote il capo:
mi chiama ingenua e dice che son sciocca:
perché rimango in gabbia,
e perché m’illudo dell’amor dell’altro
- già, quello speciale, che ha moglie e figlio:
figlio che ama, moglie che più non ama ma che non lascia.
A volte la realtà mi ferisce improvvisa,
e mi fa male, mi fa male dentro,
nel dubbio d’esser solo amante a tempo perso.
Poi so ritrovare i miei ma, ricercare i miei però:
per giustificare, per dir a me stessa che m’ama davvero.
Ne morirei, io, altrimenti.

Il tempo


Si dice che il tempo scorra.
Noi qui: nascere e vivere e perire.

Si dice che il tempo scorra.
Ma scorre davvero il campo
visto dal finestrino
di una vettura in corsa?

Si dice che il tempo scorra.
Ma fermo è il tempo.
Noi, le cose e tutto
scorriamo nel tempo.

La vita è il fiume,
le sponde il tempo.

Il mio giardino


Una rosa tra le dita, colta dal roseto nel mio giardino:
appassirà, ma altre già ne stan sbocciando.
Passiamo, noi e ogni cosa, nel tempo.
Ora son qui con la mia rosa in mano,
nel giardino tutto mio che m’appartiene,
tra ricordi e progetti.
Mi dà un senso il pensar ai boccioli di rosa:
se stan bene, se crescono, se fioriranno.
Lo piantammo insieme il mio giardino,
io con lui che d’un tratto mancò e ancor mi manca.
Anni di buio, con la metà di me rimasta,
l’altra metà morta con lui.
Oggi ho per stile la serenità,
io coi capelli grigi.
Una gran tranquillità mi viene dal passato.
E da questo giardino, ogni volta, ricomincio:
per tentar di conoscere me stessa,
per cercar in me quella piccola luce
che brilli come gemma che sboccia.
E’ ancor tanto impegnata la mia vita,
eppur le so trovare le mie pause di silenzio:
per coglier, come una rosa, quella luce.
E’ spesso nel tacere della notte
che distinguo in me la mia voce vera.
Il corpo appassisce come una delle mie rose,
ma la mente è carica di nuove gemme.
E trovo bello l’andar avanti nel tempo.
Un nuovo amore? Chissà, ma non lo cerco.
Fiorì già così tanto il mio giardino,
son meravigliosi i miei ricordi.
E ci son giardini che appartengono solo a noi stessi:
è questa la bellezza del vivere.

Il lato oscuro


Serpeggia la rivalità tra noi: siam donne.
E’ il nostro lato oscuro.
Creder che le altre sian buone
è una bugia che ci diciam per non sentirci sole.
Perfin l’amica può diventar antagonista
– se poi è quella del cuore, davver fa male.
Tra di noi ecco i sentimenti:
rivalità, amicizia, invidia.
E’ l’incertezza nostra interiore.
E’ per non soccombere
che l’io nostro deve riuscir vincitore.
E vincere una volta davver non basta:
costante è la lotta, l’arena è vasta.
E gli uomini non sanno che
il nostro agghindarci e proporci e atteggiarci
non è sol per loro.
Certo una lor occhiata ammirata gratifica,
ma più sottile è il gusto
di quella d’altra donna:
quel cogliere l’invidia nella lor ammirazione.
E chi meglio di noi sa quanto male l’invidia faccia
con la sua lacerazione?
Se poi c’è una rivale,
nemica per la pelle quella diventa:
avversaria da coglier sempre di sorpresa
e da distrugger. Per rivalità.
E per gelosia.

Il guanto nero


Melodie orchestrali nella sala della penombra dei colori.
Nei calici, bollicine di note musicali.
Voci allegre, confuse nella sonorità. Sorrisi e fumi.
Papillon e abiti da mezza sera.
Poi – d’incanto – tutto cessa:
è il silenzio che crea attesa,
nel buio delle spente luci colorate.

Appare lei,
illuminata da un cerchio di luce bianca e innaturale.
Avanza piano, verso il centro del palco.
Elegantissima, nel suo frac nero
che cade sulle gambe nude calzate a velo.
Di nero vestita, i guanti lunghi.
E un cilindro rosso.
Lei.

Qual è mai il suo fascino?
Lo sguardo, il sorriso accennato, il portamento?
C’è in lei una fierezza strana
quando gira attorno alla sedia sul palco.
Ora canta una melodia che incanta.
La commozione che sale prepara l’applauso.

Poi è di nuovo silenzio.
Lentamente, si sfila un guanto.
Scende piano tra il pubblico ignaro:
poggerà la mano – ognuno lo sa - su qualcuno;
ciascuno spera eppur teme,
respirando il profumo di colei che passa lieve.
Lei cerca chi non c’è.
E io che la vedo – da un sipario, tra le quinte -
guardo altrove per non veder il suo sguardo perduto.
E ne soffro, trafitto. Per lei malata.
Per lei che chiama magia l’inganno del male.


Di nuovo sulla ribalta:
è stupenda nella sua bellezza superba.
Si avvia tra le pesanti tende rosso cupo,
asciugandosi una lacrima.
E scompare.

A terra, sul palco, un guanto nero.
Che conserva ancora il suo tocco.

Il gioco


Riemerge ora la parte magica e bella di quel mio gioco, qui,
davanti al tuo volto, mentre tu riposi nella terra, protetta dal marmo.
Lo sai, mamma? Io, allora bambina – sorrido –,
rifuggivo per paura dai volti scuri che mi parevan specchi del mio.
E rifuggivo dal tuo, non potendo guardare la vita spenta
che lo adombrava e in cui ti chiudevi inerte.
Volti scuri di casa, che dicevan la tristezza di non poter far nulla per te
ormai prigioniera silente dell’apatia del tuo animo.
Dov’eri tu? E il tuo sorriso per me dov’era?
Io bambina, impaurita, mi rifugiavo allora
in un gioco che avevo scoperto chissà come
in un angolo segreto della mia mente:
ricercare il tuo volto di mamma, ritrovarlo lì ad aspettarmi,
per rivolgermi a te e sorriderci del nostro sorriso.
Quel cielo che pareva grigio tornava allora blu,
mi ridava un po’ di forza e potevo riguardarne i colori.

Ora ho altri volti - sereni, di un’altra casa - la mia.
Volti cari che dicon la gioia d’essere noi famiglia.
E il cielo è quasi sempre blu.
Solo a volte – ma questa è cosa mia –
una tristezza lieve sale lieve come una lacrima
che cade lieve come una prima goccia nel cielo grigio.
E la accolgo e la conservo, in un angolo segreto.
Dove ti ritrovo ad aspettarmi,
per sorriderci del nostro sorriso.

I miei vestiti


Son le piccole cose, a volte, a dar sicurezza.
Il trucco ben fatto, i tacchi giusti, l’abito che casca bene:
dettagli che recano impercettibili gratificazioni,
che mi dan fiducia in me stessa.
E’ il desiderio di.
E’ un atto d’amore.
Verso di me.

Non son solo vestiti: sono i tentativi infiniti.
Il tema musicale è il corpo, gli abiti le sue variazioni.
Nella grammatica del porsi, i vestiti son declinazioni.

Quando io scopro un nuovo capo, esso diventa la mia meta:
eccitata, coinvolta in un innamoramento,
la scoperta mi rallegra e mi travolge in un momento:
è quel che mi si adatta, m’assomiglia e mi completa.
Diventa il sogno d’un corpo nuovo,
per vivere il ruolo in cui mi rinnovo,
per migliorarmi e conferire al mio aspetto
piacevolezza e armonia cui anelo e che sempre aspetto.
Ogni volta fantastico: è quello il capo che mi manca.
M’accendo di nuova vitalità, non son più stanca.

E’ una questione di sicurezza, di identità.
E lo confesso: è anche per rivalità,
per affermar sulle altre la mia supremazia.
E’ il gioco affascinante del compier una profezia:
dall’invidia di una so d’aver fatto centro.
Non sempre sull’uomo nel vestirmi mi concentro:
è spesso per le altre, e non per essere ammirata.
La gelosia femminile
spesso val più d’un complimento maschile:
è per essere da quelle poi invidiata.

Per una donna l’abbigliarsi è il passatempo più gradevole,
anche la più saggia e la più seria in questo è cedevole.
E se una donna rinuncia, qualcosa non va: è il rifiuto della femminilità.

Ci son mattine che si vorrebbe scappare: tornare a casa per potersi cambiare.
Questione di agio: sentirsi in forma per non essere a disagio.
E’ serenità e soddisfazione, se ciò che indosso assomiglia alla mia sensazione.
Incontrar me stessa e rispecchiarmi nell’abito che mi son messa.

Ci son momenti e momenti.
A volte, nessun uomo può rendermi felice come un abito di seta.
In casa, poi, non è il momento: non ci si veste per la vita domestica.
Sentirsi ammirata e un po’ invidiata è un balsamo per l’evasione.
E ci son momenti scandalosi in cui scelgo la biancheria
come se dovessi indossarla sopra.
C’è poi il momento di preparasi per una gran serata,
ma quella non conta, il piacere sta nel prepararsi
per la propria entrata.
Umiliante sarebbe passare inosservata.
Ci son anche i momenti in cui si prolunga il piacere:
negli acquisti, nella scelta, nelle prove.

E ci son infine i momenti miei e miei soltanto.
E’ il preparar e l’indossar la biancheria, che è mia, dell’intimità.
Non è per un uomo, che forse mai la vedrà.
E’ il piacere nascosto che sicurezza mi dà.
E’ per quell’altra mia personalità,
una riserva che indosso quando la prima non va.
Quella biancheria è soltanto mia,
preziosa e ricercata, già vissuta, già usata.
E’ la mia seconda pelle.
Nessuno la vedrà, ma io la sento nell’intimità.
E son me stessa, con maggior sicurezza.
E con fierezza.

domenica 23 marzo 2008

Fragilità


Accade – in certi momenti bui e stagnanti –
che tu mi chiami: mi basta la tua voce.

E’ come in un pomeriggio scuro
di una giornata che non ha visto il sole:
nuvole pesanti e quasi nere
che incupiscono il grigiore plumbeo del cielo.
Poi la tua voce:
uno squarcio improvviso d’azzurro,
rallegrato da raggi vivi e dorati,
che svela d’un tratto la profondità alta e infinita
dei cieli.
Accade quando tu mi chiami.
Mi basta la tua voce
a darmi un brivido.
E già sono dentro il momento
indicibilmente prezioso che mi avvolge
con l’eco lasciata dalla tua voce.
E che assaporo all’infinito.

Come ti vorrei


Pazienza, se tu principe non sei.
E azzurro, poi, davvero no non ti gradirei.
Ma che tu mi capisca, questo sì che lo vorrei.
Forse, chissà, abbiam troppe pretese,
ma che voi non ci capiate mai è pur palese.
E mai ci capirete, senza offese.

E non fermarti – tontolone – all’evidenza,
cerca d’intuire la mia vera essenza:
per capire ciò che voglio, vai oltre l’apparenza.
Se con te a far la tenera mi metto
è per il desiderio vivo che ho nel petto:
se sol voglia di coccole tu credi, mi fai un dispetto.
Così, se mi lamento qualche volta,
non trar fuori la soluzione che nella tua testa hai colta,
ma taci, abbracciami, lasciami parlare e ascolta.

Ma dov’è mai l’uomo ideale, sulla luna?
Forse, se càpita, è sol per colpo di fortuna.
Dovrò formarlo io su misura, dovrò inventarne una.
Perché poi è riservata a noi tanta asprezza?
Lo vorrei speciale e sol per me, è una certezza.
Sì, perché mi darebbe sicurezza.

Colori


Il mio nuovo giorno inizia nel rosso del tramonto,
quando l’oggi diventa ieri nel crepuscolo rossastro
e il domani si fa oggi nel cielo dorato.

L’arancione dell’aurora è uno squillo silenzioso
nel risveglio del mattino,
destando alla vita che rinnova.

E’ giallo il momento in cui
la mente raccoglie i pensieri
per riordinarli e acquietarli.

Verde è il senso di pace
di quando si è in pace
e tutto par quasi bello.

L’amore assume i toni del blu,
facendosi a volte azzurrissimo infinito,
altre volte celeste di gioia.

Sogni e aspirazioni assumono tonalità
or di viola profondo, or di intimo violetto,
fluttuando nell’indaco dell’animo che li accoglie.

Di che colore mai sei tu, donna unica e anima mia?
Sei forse del colore dei tuoi occhi? O del tuo sorriso chiaro?
Tu, tu sola, hai tutti i colori iridescenti e preziosi che scaturiscono
dai riflessi della luce diamantea che hai nel cuore.